Gli amici (in pericolo) del coccodrillo Lacoste. Nuovo logo per la collezione dal cuore animalista
Metti un condor al posto del coccodrillo più famoso del fashion world. Oppure una tigre, una tartaruga, un’iguana. Lacoste osa, nel nome dell’impegno animalista e ambientalista, cancellando il suo mitico marchio per una collezione speciale. E l’idea è vincente.
Marketing sì, ma con un taglio sociale. Arriva un nuovo esempio di comunicazione impegnata, costruita a partire da un tema caldo, sposando finalità commerciali e bene comune. L’intreccio in certi casi genera operazioni tutt’altro che ruffiane, tutt’altro che forzate. Geniali persino.
Intelligente l’operazione messa a punto da Lacoste, prendendosi il rischio di ripensare (temporaneamente) il proprio simbolo, icona assoluta nel panorama dello sportwear. Cosa c’è di più sacro di un marchio? Anima grafica del brand, suo volto riconoscibile e indicatore visivo di identità. Ecco un bel modo per giocarci, con massimo beneficio d’immagine e di contenuti.
IL TENNISTA-STILISTA CHIAMATO “COCCODRILLO”
Il piccolo coccodrillo verde nasceva nel 1927 dalla matita dell’artista Robert Georg. Lo schizzo originario era un omaggio in punta di matita per il campione René Lacoste, stella del tennis emersa negli Anni Venti, vincitore di una serie di tornei internazionali. Proprio nel ’27 aveva conquistato la Coppa Davis contro gli statunitensi, mantenendo il titolo per sei stagioni consecutive. A soprannominarlo “coccodrillo” era stata quell’anno la stampa americana, in seguito a una scommessa stretta col capitano della squadra francese: se Lacoste avesse vinto una partita cruciale per il campionato, l’amico gli avrebbe regalato una valigia in pelle di coccodrillo. E Lacoste, naturalmente, vinse. Il soprannome si rivelò perfetto, anche per raccontare la tenacia con cui il campione agganciava l’avversario sul campo, non mollandolo per tutto il match. Come un alligatore con la sua preda.
Poco tempo dopo nacquero le rivoluzionarie magliette bianche, dotate di colletto e bottoncini, partorite dall’ingegno di Lacoste per unire la praticità di una semplice t-shirt in cotone con l’eleganza borghese di una camicia. Un capo perfetto per essere casual e chic durante il gioco. Il logo, manco a dirlo, era già pronto, disegnato su quel foglio. Clamoroso fu il successo, presto tarasformato in business. Nel 1933 nasceva la casa di abbigliamento di René Lacoste, affiancato da André Gillier nel ruolo di Presidente. Nel firmamento delle icone pop entrava a pieno titolo la nuova maglia a maniche corte, destinata diventare un cult: l’unica con un coccodrillino verde ricamato dalla parte del cuore.
UNA CAPSULE COLLECTION DAL CUORE ANIMALISTA
Oggi qualcosa cambia, ma solo per un progetto speciale. La campagna SOS – Save Our Species è affidata all’agenzia parigina BETC e messa a punto per i 70 anni di IUCN – Unione Internazionale per la Conservazione della Natura. Al centro c’è una capsule collection di dieci nuove polo, dedicate a dieci specie in via di estinzione: il coccodrillo lascia il posto ad alcuni animali minacciati, ripresi sulle magliette come varianti del logo tradizionale. Ci sono, tra gli altri, la tigre di Sumatra, la tartaruga burmese, il rinoceronte di Giava, il gibbone Cao-Vit, l’iguana di Anegada o la focena del Golfo di California. Quanti pezzi per ogni modello? Il numero corrisponde alla quantità di esemplari rimasti. Se di condor californiani se ne contano oggi solo 231 in tutto, sono esattamente 231 le Lacoste con un logo verde a forma di condor. Edizioni super limitate, dunque, vendute al costo di 150 euro, per un totale di 1.775 capi prodotti. Tutto sold out in pochi giorni, con il ricavato destinato alla lotta per la conservazione delle specie a rischio.
Un classico per eccellenza, che fa del suo bagaglio di solidità, coerenza, rigore, una nuova occasione di narrazione etica: dallo sport alla natura, dalla tenacia sul campo da gioco alla passione green, dal rispetto per l’avversario alla difesa di chi è più vulnerabile. Un’attitudine che Lacoste ha già evidenziato nei suoi progetti di stampo sociale, educativo, ambientale.
E se l’appeal e l’autorevolezza del marchio sono utili alla causa animalista, è il marchio stesso a beneficiare della nuova veste engagé. Qui l’audacia sta tutta nella scelta non solo di modificare, ma addirittura di cancellare il proprio simbolo, sostituendolo. E di riaffermarlo grazie a un meccanismo di evocazione: scelta premiata dal successo dell’operazione, che conferma – se mai ce ne fosse bisogno – la caratura del brand. Talmente forte da poter mutare radicalmente pelle, senza perdere riconoscibilità. Semmai, acquistando valore.
L’azienda, che ha spesso reinventato il logo tra capi speciali e campagne di comunicazione, nel 2012 rimarcava ad esempio la sua anima multiculturale presentando la “Flag Capsule Collection” in occasione della Fashion Week parigina. Il camaleontico alligatore rubava colori e motivi di 16 bandiere nazionali, risaltando sulle classiche polo in piqué bianco. In aggiunta, i modelli a fantasia sostituivano le tinte unite con le maxi stampe delle stesse bandiere, oppure – per l’esclusiva “The Flag Polo Shirt” – con un fitto patchwork di bandierine.
Il lusso di tradirsi, l’arte di restare: quasi un secolo fa nasceva la maglietta a misura di tennista gentiluomo, in tempi di deforestazione e riscaldamento globale riscopertosi anche eco-attivista, paladino della biodiversità.
– Helga Marsala
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