Gli Anni Cinquanta e la moda. Miti, riti e ossessioni lungo “Il filo nascosto”
La parabola della moda, a metà del secolo scorso, subì un’accelerazione notevole e regalò al mondo straordinarie pagine di stile. Gli Anni Cinquanta hanno il nome di grandi sarti europei e il volto di donne sofisticate, strette fra la tradizione e la voglia di cambiamento. Una storia raccontata spesso dai musei, ma anche dal cinema. “Il filo nascosto” di Paul Thomas Anderson è uno tra i più bei film del momento.
Corsetti, crinoline, gonne a corolla, vitini da vespa, bikini, décolleté, tacchi a spillo, strascichi e merletti, colori accesi e stampe floreali, tailleur bon ton, guanti, perle, velette. L’immagine della nouvelle femme si disegna tra la sobrietà del classico, il New Look parigino, l’imperativo della seduzione, il romanticismo di tulle e ricami, l’opulenza dei mantelli e dei principeschi long dress. Sono gli Anni Cinquanta. E per la moda, in Europa soprattutto, è l’epoca del boom.
Sempre più solido il sistema, a livello dei ruoli e dell’immaginario, dei simboli e delle icone, dei meccanismi di produzione e comunicazione. La fine della guerra è spartiacque: esplode la creatività, insieme allo spirito d’impresa e alla voglia di benessere, di futuro.
E a proposito di abiti e di stile, anche l’involucro cambia. Bando al gusto androgino, alla patina dimessa, alle palette brune e ai mezzi toni, all’essenzialità severa, alle spalline larghe e ai tagli squadrati. Dive, pin-up, casalinghe borghesi, gran dame dell’alta società: quel che conta è sedurre, nel senso di incantare. Incanto di una femminilità curata, consapevole, radiosa, sofisticata. Ancora legata ai pesanti stereotipi sociali, ma già protesa in avanti, ad annusare i primi venti di emancipazione. È l’inizio di un cambiamento profondo che avrebbe condotto dritto agli Anni Sessanta.
MODA E MUSEI. CELEBRANDO QUEGLI ANNI
E sono sempre più spesso i musei a celebrare lo spirito fashion dei favolosi Anni Cinquanta. Basti pensare alla mostra Les Années 50, ospitata nel 2014 dal Musée Galliera di Parigi: il curatore, Olivier Saillard, raccontava il periodo compreso tra il 1947 e il 1957 con un tripudio di abiti, accessori, bozzetti, foto e reperti, capaci di restituire l’essenza della moda nel mezzo di quella incipiente rivoluzione. Archeologia del fashion, rievocando atmosfere da fiaba. Da una celebre copertina patinata di Elle, con Grace Kelly strizzata in un due pezzi bianco, tra audacia e candore, al volto iconico di Audrey Hepburn, vestita Givenchy nel 1956, per il film Love in the Afternoon di Billy Wilder; dagli abiti da ballo Dior, coi corpini intarsiati, aderenti, tagliati a cuore, da cui sbocciavano ampie gonne in tulle, seta e chiffon, ai palloncini in taffetà e le architetture avvolgenti di Balenciaga, figlie di una ricerca da pioniere.
Quanto a Dior, impossibile non citare la grande mostra inaugurata nel 2017 al Musée des Arts Décoratifs di Parigi, per festeggiare i settant’anni anni della maison: Christian Dior: Designer of Dreams allestiva lungo tremila metri quadri oltre 300 sfavillanti creazioni, realizzate dai direttori che si sono succeduti al timone, dopo la scomparsa del fondatore: Yves Saint Laurent, Marc Bohan, Gianfranco Ferrè, John Galliano, Raf Simons e oggi Maria Grazia Chiuri.
L’attenzione dei media e del sistema culturale si sofferma con crescente attenzione anche sullo spagnolo Cristóbal Balenciaga, altro autentico diamante che in quegli anni dettò stili, tendenze, sintassi nuove. Nel 2017 gli ha dedicato una mostra importante il Victoria & Albert Museum di Londra: oltre 100 abiti, bozzetti e scatti d’autore ricostruivano i codici linguistici del couturier spagnolo, che fu idolo di principesse, dive di Hollywood, first lady, signore dell’aristocrazia e della borghesia più facoltosa. Con le sue forme ardite, le geometrie irregolari, le curve ampie e scolpite, disegnò le silhouette oltre i cliché del corpo sexy e contro la lezione del rivale Dior.
In questi giorni, e fino al 27 gennaio 2019, il Museo Balenciaga di Getaria ospita Cristóbal Balenciaga, Moda y Patrimonio. Impianto espositivo interessante, che ruota attorno al 2018, Anno Europeo del Patrimonio Culturale, ma anche 50esimo anniversario del ritiro dalle scene del grande stilista. Il momento, cioè, in cui i suoi abiti smettevano di esistere tra le passerelle e le strade, per scalare l’Olimpo dei musei e degli archivi. A partire da quel lontano 1968 Balenciaga entrava nel mito, diventava storia.
IL FILO NASCOSTO. L’OMAGGIO DEL GRANDE SCHERMO
E poi c’è il cinema. Che da tutte queste vicende trae visioni, racconti, sceneggiature. Phantom Thread (in italiano Il filo nascosto) è l’ultima, splendida prova del regista Paul Thomas Anderson, candidato a sei Oscar e premiato – meritando qualcosa di più ‒ solo per i costumi. Tanto cerebrale quanto condotto sul piano della sensazione, il film trova una cifra assolutamente propria, sfoderando un fascino narrativo e una esattezza introspettiva che sono tutt’uno col ritmo mai diluito e con la fotografia intensa.
Perfetto nel ruolo ‒ a proposito di fascino e di intensità ‒ il già premio Oscar Daniel Day-Lewis, nei panni del protagonista. Reynolds Woodcock è uno stilista di grido, reuccio dell’alta moda in un’Inghilterra sfiancata dalla guerra e insieme lanciata in un cammino di rinascita, preparando l’exploit creativo e culturale del decennio successivo.
La figura di questo schivo, nervoso, flemmatico couturier è sbozzata con precisione. Ed è dichiaratamente e liberamente ispirata proprio a quella dell’austero Balenciaga, di cui permangono alcuni tratti del temperamento, certi dettagli biografici (su tutti la figura della madre sarta) e in generale la complessità psicologica: severità, asperità, devozione al lavoro, narcisismo e allergia alle sirene dei nuovi trend, alla macchina nascente del fashion-show, alla nuova cifra detestabilmente “chic”. La moda, per Reynolds, è un fatto serio. Etico, persino. Uno spazio “sacro” in cui lo stile è innanzitutto modalità di stare al mondo, di posarvi lo sguardo. Altro che glamour e riflettori. Uno spazio, infine, che unisce tradizione e innovazione nel nome di un’artigianalità da difendere, da coltivare.
TUTTO L’EROTISMO DELLA SUPERFICIE
E poi c’è quel pessimo carattere, misto di charme, antipatia e indole ossessiva. Sotto la superficie ruvida si celano fragilità infantili – il fantasma della madre continua a tornare, denunciando un vuoto affettivo mai colmato – e la tipica inquietudine di uno scapolo incallito, insofferente, dannatamente libero, concentrato su se stesso e sulla sua vocazione. Finché Reynolds non si schianta contro la dolcezza di Alma, giovane cameriera – interpretata da Vicky Krieps – la cui personalità forte è pari solo alla sua pazienza. Sarà lei a cambiare la vita di lui, lentamente, violentemente.
Stretto intorno a tre personaggi – c’è anche l’algida sorella-chioccia di Reynolds, che gli fa da madre, governante, manager e rifugio –, il film è un tripudio di meravigliosi abiti e di suadenti partiture d’archi, tra interni domestici sontuosi: gran balli, schermaglie, vizi, noie e desideri di una upper class in pieno rigoglio.
La dialettica amorosa inizia col rituale seduttivo di lui, che ha soldi, talento e potere, e che nella più erotica delle scene corteggia lei, vestendola anziché spogliarla. È il primo appuntamento. Alma si offre senza esitazioni e diventa sua mannequin eccellente: quella sera e per sempre. La camera segue da vicino aghi, mani, impunture, fruscii di tessuto. Un soffermarsi deciso, che torna in più punti del film e che ha un valore tanto concettuale quanto squisitamente erotico. L’unico vero contatto sessuale tra i due – prima amanti, poi sposi – si riduce a un bacio di pochi secondi, sbocciato per strada. Tutto l’eros possibile è in quel sex appeal dell’inorganico che scambia la stoffa con la pelle, le curve del corpo con le linee del pensiero, la malia della superficie con la passione delle membra, la seduzione del sintetico con la verità della carne. La moda, in questo senso, si fa teatro di un’avventura estetica condotta sull’orlo, tra il limite dei corpi e il suo superamento.
LA STRATEGIA FATALE
Il gioco, però, è destinato a capovolgersi. Sarà lei a diventare condottiera, lei a tenere le fila. Solo apparentemente piegata, conquistata. La partita si risolve col piano geniale da stratega di una giovane moglie caparbia, consapevole di quanto sia grande il rischio alla base di certe liaison. “Ti voglio inerme”, gli confessa a un certo punto. Inerme, tenero, aperto, pronto a ricevere e disposto a darsi. E quindi, paradossalmente, non più fragile. Amare, in fondo, non è che questa disarmante contraddizione. Eros e thanatos restano gli estremi entro cui si snoda questo racconto antico e moderno: la massima potenza, prima seduttiva e poi esistenziale, sta nell’azione esercitata sulla vita dell’altro, e dunque sulla sua morte. Occorre abbandonarsi fino alle estreme conseguenze, sperimentando la soglia tra fiducia e paura. Dalla parabola del peccato originale al mito potentissimo di Orfeo ed Euridice, dalle pagine sull’Eros di Bataille agli esperimenti di Marina Abramović e Ulay negli Anni Sessanta, un tema immenso e mai esaurito.
Con le sue pozioni a base di funghi velenosi Alma ha in mano la fine di Reynolds e la sua sopravvivenza. Lo sfianca, lo ammala, lo rende debole. Sfonda i sui aspri muri e così lo fortifica. Nell’intossicazione del corpo e nel delirio febbrile, Reynolds ha bisogno di Alma: finalmente. La pozione, polverizzata tra le pietanze, è ben dosata: q.b. Quanto basta per non morire, per modellare l’animo bisbetico, per smussare e squarciare, per affrontare vecchie ferite e rinascere in una luce nuova. Ma a condurre la partita, in fondo, è la vittima. Reynolds è consapevole del rischio, intuisce il piano e ne accetta le regole. Si espone. È lui, oggetto della strategia fatale, a diventarne soggetto, a scrivere il copione.
Il filo nascosto restituisce lo spirito creativo del tempo, imbastendo un dramma privato che guarda al classico, all’origine, alla grandi storie di sempre. E lo fa con estrema misura, con occhio clinico, senza ridondanze, sbavature emotive, sentimentalismi o forzature psicanalitiche. Lo spettacolo della moda negli Anni Cinquanta non è qui al centro di un’indagine storico-critica; diventa, semmai, la cornice simbolica a partire da cui si tracciano linee poetiche, estetiche, letterarie. Un film suadente, chiaroscurale, a suo modo feroce. Cucito – è il caso di dirlo – tra la passione e l’intelletto. Celebrando l’intelligenza spietata dell’amore.
‒ Helga Marsala
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