La Milano Fashion Week, quella che propone le collezioni autunno-inverno 2018/19, si è chiusa con una polemica esplicita, il dissenso e il rifiuto di vedere teste mozzate e deformità in passerella, luogo destinato alla proposta del bello per eccellenza: l’immortale tradizione di Giorgio Armani non accetta la rivoluzione di Alessandro Michele per Gucci. Assistiamo alla discussione in un clima di totale insicurezza politica, scossi per il fatto che, anche nella moda, si sia giunti a scontri diretti.
Ma, come avviene quando si ha il coraggio di guardare altrove, la speranza arriva da ciò che cercano di dirci i visionari: dopo aver visto La forma dell’acqua di Guillermo del Toro, la sfilata di Gucci ci ha spinto ancora di più in quell’irreale fantastico, l’altrove, dove i mostri sono belli e capaci di amare, nonostante abbiano un’altra pelle o ben tre occhi. Così il ruolo del mostro e del diverso cambia e attira l’attenzione, invece di respingerla. È un processo che solo la dimensione fantastica poteva generare, a costo di spaventare: l’imperfezione garantisce un ruolo da protagonista.
Nell’ambito della moda, questo processo è iniziato nel 1971, quando Walter Albini sfila una collezione unisex – come raccontano Maria Luisa Frisa e Stefano Tonchi nella mostra Italiana. L’Italia vista dalla moda 1971-2001, visitabile al Palazzo Reale di Milano fino al 6 maggio.
Nel cinema il discorso è più complesso, ma sempre strettamente legato all’abito o al costume come rappresentazione di uno stato d’animo, del singolo o della comunità. Sicuramente le immagini di L’Enfer (1964), il film incompiuto di Henri-Georges Clouzot – lasciato in 185 scatolette all’archivio CNC e riscoperto da Lobster Films nel 2007 –, esprimono l’incertezza dell’essere umano. Clouzot esponeva la persona dietro l’attore, e l’attore e il suo vestito sono trattati come uno schermo su cui proiettare luci, ombre e motivi colorati.
MODA E IMMAGINI IN MOVIMENTO
“Fashion misure of the time”, diceva Walter Benjamin, e questa è anche la frase che introduce la decima edizione del Fashion in Film Festival, ospitata al Teatrino di Palazzo Grassi a Venezia in una tre giorni di moda, arte e cinema, con proiezioni aperte al pubblico e un workshop riservato agli studenti, organizzato dalla Collezione Pinault insieme alla Central Saint Martins e allo IUAV. Il festival nasce dalla volontà di approfondire la relazione fra moda e immagini in movimento, grazie alle competenze dei tre fondatori: la curatrice e ricercatrice Marketa Uhlirova, il costumista Roger K. Burton e il curatore Christel Tsilibaris.
“La mia ricerca è sempre guidata contemporaneamente da preoccupazioni visive, storiche e ideologiche. L’abbigliamento, i tessuti, gli accessori e lo stile sono un importante punto di partenza, ma approfondisco chiedendomi come vengono mostrati e discussi, come sono integrati narrativamente – quando c’è una storia – e cosa significa. Questo è il motivo per cui, fin dall’inizio, ho posto tanta enfasi nell’accompagnare i festival con pubblicazioni che interpretano i film e l’abbigliamento al loro interno”, ci racconta Marketa Uhlirova. Ma come viene effettuata la selezione dei film? “La ricerca non si ferma mai: una volta che ti focalizzi su un tema particolare, le idee e gli oggetti iniziano a venire a te. Nel mio caso, l’aiuto più prezioso proviene dall’archivio: ci si connette con un materiale che non è ancora stato elaborato culturalmente, quindi essendo liberi di creare le proprie connessioni. In secondo luogo”, prosegue la curatrice, “si può osservare almeno parte del materiale su 16 o 35 mm, e questo tipo di luminosità e materialità dell’immagine può essere davvero sorprendente, specialmente quando si ha a che fare con un soggetto già attraente come l’abbigliamento”.
Non si tratta dunque di un festival dedicato al cinema di moda, ma alla moda nel cinema. “Fin dai primi film, ci sono state forme cinematografiche che si sono concentrate sul vestito. Agli albori del cinema, ad esempio, si immortalavano danze serpentine alla Loïe Fuller, con enormi quantità di tessuti ondulati di seta che venivano poi colorati a mano, fotogramma per fotogramma, con un effetto abbagliante”, ci spiega Marketa Uhlirova. “Negli Anni Dieci e Venti del XX secolo, le attrici indossavano abitualmente abiti alla moda come ‘costumi’. La moda era inestricabilmente legata allo sviluppo dello star sytstem, e questo era vero non solo per le donne ma anche per gli uomini. Il riconoscimento che la moda fosse una grande attrazione per il pubblico alla fine ha generato la professione del costumista – uno specialista che ha riunito in sé aspetti della fotografia, del colore, ma anche della psicologia, per convincere un personaggio a entrare nella parte”.
UN FENOMENO AMPIO
Una chiave di lettura, questa, che aiuta a comprendere quanto sia ampio il fenomeno moda, e quanto il rapporto con il cinema e con le altre espressioni visive possa essere fonte di ispirazione o collaborazione: perdere le differenze fra moda e costume per evitare classificazioni antiche. Una rivoluzione che alimenta processi identitari al di sopra della provenienza e della cultura; un fenomeno che, se analizzato scientificamente, apre indicazioni future fondamentali. Serve una lettura a un livello superiore per decodificare atteggiamenti e raggiungere strategie economiche nuove grazie alla comprensione, che non si basa più sul saper giudicare una silhouette, un tessuto o un orlo.
Lo choc imposto da Gucci e la comprensibile reazione di Armani sono le radici profonde di un sistema che si può rigenerare bilanciando le proprie forze: la tradizione e l’avanguardia, l’arte e l’artigianato, la cultura innata della produzione. Oltre il concetto di metafora e di indispensabile accettazione dell’altro, in un mondo che cambia rompendo violentemente confini imposti solo da accordi economici, c’è un’estetica che cambia anch’essa, proponendo il valore del mix, della sovrapposizione di pezzi come ricordi ed elementi di travestimento.
‒ Clara Tosi Pamphili
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #42
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