In morte di Zombie Boy. Fenomenologia dell’uomo-scheletro, fra performance e tattoo
Modello, icona di stile, personaggio cult amato da star del pop come Lady Gaga, Zombie Boy si è spento giovanissimo. Un caso di suicidio che, inevitabilmente, richiama la trama di una storia personale controversa, sconfinata in una dimensione artistica ed estetica singolare.
Per tutti era Zombie Boy, fin dall’adolescenza: lo chiamavano così gli amici, quando viveva in strada tra squat e ambienti punk, lavando vetri di automobili per sopravvivere e scoprendo presto, prestissimo, la sua vocazione gothic-dark. Rick Genest, questo il suo vero nome, era nato il 7 agosto del 1985 a LaSalle, nella provincia del Quèbec. E nel suo appartamento di Montreal, lo scorso 1 agosto, lo hanno trovato senza vita: non aveva ancora compiuto 33 anni. Suicidio: la versione diffusa tra i social e la stampa è stata subito unanime.
Il suo ultimo post su Instagram è la foto di un cerchio di luce nell’oscurità, accompagnato da una poesia autografa intitolata a Damballa, spirito Vudù della Conoscenza: versi traboccanti di romanticismo noir, evocando le strette porte della morte, il chiaro di luna, il desiderio di follia, il senso della fine, la voragine, la freddezza della pietra, del ghiaccio, del metallo. Parole libere come presagi di lutto. Migliaia i commenti di cordoglio fra le tante foto postate sul suo profilo.
Rick era un’icona fashion, personaggio noto ai media, modello corteggiato da stilisti, fotografi e pop star, per via del suo aspetto singolare: era entrato nel Guinness World Record per la quantità di tatuaggi accumulati su circa il 90% della superficie del corpo. Horror vacui senza soluzione di continuità. Non tatuaggi qualunque, tra l’altro. L’intreccio di segni, come in uno spaventoso tromp l’oeil, riproduceva la struttura di uno scheletro – pari a 136 ossa umane – con tanto di organi interni misti a 176 esemplari di insetti. Anche il volto a imitazione di un teschio e le volute del cervello fedelmente disegnate sulla calotta cranica.
Un affascinante caso di quotidiana coabitazione con l’eccesso e col perverso: si era trasformato da solo nel suo incubo peggiore, o forse nel suo sogno deviato. Spettro, freak, creatura notturna costretta alla luce del giorno ed esposta agli sguardi, Zombie Boy univa provocazione, leggerezza, seduzione macabra, ironia sfacciata, narcisismo e un residuo di timidezza, insofferenza patologica e inquietudine portata a galla, fino alle estreme conseguenze.
OSSESSIONE TATTOO, TRA MORTE E SCRITTURA DEL CORPO
Il primo tatuaggio fu un teschio inciso sull’avambraccio sinistro. Aveva 16 anni ed era appena andato via di casa, dopo l’esperienza traumatica che ne segnò il cammino e l’esistenza. Appena quindicenne era stato colpito da una grave forma di tumore al cervello. Venne operato, curato e per miracolo guarì. Aveva raccontato a The Sun: “Anche i medici mi avevano detto che ero stato fortunato. Ho offuscato il confine tra la vita e la morte e lo sto ancora facendo ancora adesso. I miei amici mi hanno soprannominato Zombie per via del mio passato”. Un quasi morto, un sopravvissuto rimasto incagliato nell’ombra della morte stessa. E così si trattò di offuscare, assottigliare, rendere problematica e quasi indistinguibile la soglia tra le due dimensioni interconnesse – il vivere e il morire – assumendo tutto il peso e la violenza di quest’incastro, comunemente rimosso per rispondere alla naturale pulsione di sopravvivenza. La cultura occidentale moderna, poi, della morte ha fatto definitivamente un tabù: vietato guardarla in faccia, accettarla, averci confidenza. Rick, invece – detto anche Rico – non aveva paura. E volle farsi incarnazione di segni mortiferi, ogni giorno affacciandosi sull’uscio dell’Ade. Riscrivere la superficie del proprio corpo equivaleva a spostarne il fuoco, la natura, persino la localizzazione. Vivere altrove, letteralmente aldilà.
Zombie Boy, che a 21 anni cominciò a trasformarsi in scheletro putrescente, decise di rinascere come esperimento in punta d’ago, affidando all’inchiostro la propria reinvenzione plastico-pittorica: seduta dopo seduta il corpo si coprì di arabeschi minuti, di architetture grafiche e di apparenze tattili, di profondità simulate sulla pelle. La segretezza assoluta delle viscere, degli organi, della struttura ossea, della carne in decomposizione ricamata da nugoli d’insetti, si rovesciava nel suo contrario, affiorando e attuando un inganno: in superficie, per dirla con Baudrillard, si compiva il gioco della seduzione, qui insolitamente fuso con quello della repulsione. Il tutto affidato alla tecnica virtuosistica del noto tatuatore californiano Frank Lewis.
MODA, PUBBLICITÀ E FREAK SHOW
La fortuna arrivò nel 2011 grazie a Nicola Formichetti, direttore creativo di Thierry Mugler e stylist di Lady Gaga. Lo scovò in una fotografia, ne rimase stregato, ne intuì l’enorme potenziale comunicativo e lo volle con sé. Cambiandogli la vita. Prima di allora Rico non era mai uscito dal Canada: cominciava così la sua seconda esistenza, fatta di viaggi, passerelle, mega produzioni video, interviste su prestigiose testate, servizi fotografici super pagati. Formichetti lo scritturò per il videoclip di Gaga “Born this way”, in cui i due a un certo punto comparivano accanto. Lei, truccata e vestita come lui, era incorniciata da una lunga chioma di extension fucsia: due scheletri total black, in giacca e pantaloni.
L’amicizia con la Germanotta si sarebbe via via consolidata, trasformandosi in un legame importante, tanto che l’annuncio della tragedia è comparso sulla sua pagina Facebook con toni affranti, unito a un appello: “Il suicidio dell’amico Rick Genest, Zombie Boy, è più che devastante. Dobbiamo lavorare duro per cambiare la cultura, fare luce sulla salute mentale ed eliminare lo stigma che non vuole che se ne parli. Se stai soffrendo, chiama oggi la tua famiglia o un amico. Dobbiamo salvarci l’un l’altro“. Rick – personalità forte, estroversa, spesso sorridente, abituato ai palcoscenici – coltivava il suo male oscuro in solitudine, in parte dissimulandolo così come aveva dissimulato il suo corpo e la sua immagine, reinventati a piacere fino all’estrema forzatura.
Determinante nel 2011 fu anche la collaborazione con lo stilista Mugler, che – dietro la regia di Formichetti – lo elesse guest star della sfilata Autunno/Inverno 2011-2012, tra il catwalk della fashion week parigina e la relativa campagna pubblicitaria. Una collezione di chiaro gusto punk-dark, condita di maschere d’ispirazione sado-maso, anfibi, zip, corpetti metallici, metri di latex, neoprene, plastica cristallizzata, nylon, velluto, tessuti tecnici, raso. Il nero protagonista assoluto, con accenti di blu elettrico, bianco, verde militare, arancio. Rico era il testimonial perfetto, avvolto da una nuvola di cellofan e infilato in pesanti pantaloni cargo in pelle nera.
Diversi i fotografi eccellenti che lo immortalarono per testate di tendenza, da Dazed a GQ, fino a Vogue Homme Nippon, dove Mario Vivanco gli dedicò uno splendido servizio dal titolo “Hard To Be Passive”. Non mancò la pubblicità, grazie a marchi come L’Oréal, che nel 2014 costruì intorno al suo personaggio uno spot geniale: strati e strati di Dermablend Pro, una linea di fondotinta pensata per mascherare le imperfezioni più vistose, e il modello canadese tornò al suo aspetto originale, senza più tracce di tattoo. La sua bellezza – comunque percepibile sotto la nube d’inchiostro, tra il corpo flessuoso, i lineamenti regolari, gli occhi profondi e le labbra disegnate – veniva dissotterrata grazie al potente cosmetico. Un piccolo sortilegio al contrario: make up temporaneo a occultare il make up resistente ed esistenziale.
Intanto, mentre la carriera decollava, Genest portava avanti il suo “Lucifer’s Blasphemous Mad Macabre Torture Carnival”, uno show condotto insieme a un piccolo esercito di freak, tra bizzarrie gotiche ed eccessi luciferini: fachiri, mangiatori di fuoco o di spade, ballerine di bourlesque, incantatori di serpenti… Un’estetica del mostruoso e dell’alieno, in cui l’ironia stemperava la strana sensualità fatta di latex, ossa, piercing, scarificazioni, tatuaggi, deviazioni delle carne e decorazioni macabre. Ancora una volta la potenza oscura della superficie, capace di sfidare la logica diurna del senso e la retorica cava dei significati.
VITA (E MORTE) DA PERFORMER
Sempre nel 2011 Marc Quinn, artista internazionale tra i più influenti, gli dedicò un’opera della serie “Body Alteration”. Lo riprodusse a grandezza naturale, con una scultura monocroma nella doppia versione in bronzo e cemento. Indosso un paio di scarponi e dei pantaloni laceri, con l’intaglio raffinato dei tatuaggi a disegnare busto, volto, cranio. E’ uno dei soggetti più iconici della serie, dedicata alle manipolazioni fisiche di personaggi celebri e ai nuovi sortilegi che la chirurgia plastica o certe estetiche underground hanno sdoganato lentamente, costruendo una nuova dimensione psico-sociale del corpo.
Ma Rick Genest era solo una musa bizzarra per artisti e creativi? La sua intera esistenza è stata, a ben guardare, un’operazione artistica fatalmente intrecciata con la sfera intima, psicologica, privata. Attratto dal genere della performance, egli fu senza dubbio un performer, calatosi in una perenne dimensione spettacolare, offertosi agli sguardi del pubblico e costretto a essere personaggio, nel recinto di una messa in scena feroce. Ed era uno scultore, che della sua vita e della sua pelle fece materia prima esclusiva, vivendone tutto il rischio, lo scandalo, il dolore. Associare la sua scelta alla ricerca di artisti emersi nell’ambito del Post-human – da Stelarc a Orlan, passando per i Chapman – ma anche ai pionieri della Body Art e dell’Azionismo Viennese, diventa una prospettiva interessante, forse inevitabile.
Territorio poetico/semiotico/politico, in cui la dimensione dell’essere e quella dell’avere coincidono, il corpo non si può che descrivere come uno strano s/oggetto da possedere, abitare, modificare e insieme da vivere in quanto senziente, decidente, agente, pensante. Avere un corpo – strumento e contenitore – ed essere corpo: i segni vi si imprimono molteplici, giunti dall’esterno, appartenenti al mondo e ai codici culturali; ma in esso altresì si producono, generati sulla superficie neutra che nulla significa ma che viene fatta significare, risignificando a sua volta il mondo stesso. Una bella combinazione di livelli e di contraddizioni. Il lavoro che sul suo corpo ha compiuto Rick Genest si consuma lungo questo sentiero tortuoso, assimilabile a quello sperimentato da molti artisti contemporanei.
Del resto non è un caso che proprio la pratica del tatuaggio, concettualmente e antropologicamente connessa ai “riti di passaggio”, abbia rappresentato per lui la forma ideale di reinvenzione e riscrittura di sé: nel segno indelebile essa racchiude la memoria di una trasmutazione, marcando il transito da uno stato all’altro, accompagnando l’elaborazione di traumi, descrivendo resurrezioni minime, sigillando sacrifici e rituali.
La trama dell’inchiostro sulla pelle incarna così la connessione atavica tra vita e morte, principio e fine, e attua la scommessa della seduzione con la sua capacità di “sottrarre tutto alla sua verità, rimetterlo in gioco nel gioco puro delle apparenze, e di far così fallire tutti i sistemi di senso e di potere” (Jean Baudrillard). Una seduzione macabra, nel caso di Rico, il quale accese su di sè i riflettori e li spense per volontà propria. Salvato dalla malattia quand’era ancora un ragazzino, inseguito negli anni dall’ombra della morte che esorcizzò, tatuandosela addosso, scelse di morire alla fine del rito, non appena l’intero disegno sulla pelle fu compiuto. Ultimo atto radicale, tra messa in scena pubblica e disagio privato.
– Helga Marsala
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