Almeno un milione di giovani cinesi hanno iniziato a indossare con una ostentata consapevolezza lo hanfu, una veste fluente a maniche larghe ispirata all’abbigliamento tradizionale Han impostosi qualche millennio fa.
Chi conosce Tokyo sa che in Giappone usanze tradizionali e cultura moderna coesistono facilmente: kimono e zoccoli di legno indossati da millennial anche in autobus provocano stupore esclusivamente fra i turisti al primo ingresso nell’arcipelago.
Nel caso dello hanfu la cosa è però più complessa. Perché la Cina è un Paese estremamente complesso. La sua sterminata popolazione è costituita da 55 (!) minoranze etniche (ufficiali) tra cui quelle residenti in Tibet, nella Mongolia interna o nella riottosa regione musulmana dello Xinjiang. Quando qualcosa non funziona all’interno di questo diaspora il Partito interviene in due modi. Dopo le prime scaramucce 1. schiera l’esercito e appiana le questioni più spigolose 2. trasferisce sul territorio in questione colonie di Han (9 persone su 10 sono Han in Cina) 3. consente alle forze dell’ordine l’utilizzo di sistemi di riconoscimento facciale a ogni angolo di strada e utilizza app che monitorano i cellulari senza bisogno di interventi della magistratura.
LA STORIA
La passione per lo hanfu indossato fuori dalle ricorrenze tradizionali, in ogni caso, ha cominciato a farsi largo nei primi anni Duemila: è stato un liceale in cerca di identità di Pingliang a sviluppare questa bislacca passione per la lunga tunica con maniche amplissime chiusa da una fascia alla vita che sostiene l’insieme. Ha cominciato a indossarlo regolarmente proprio in questa piccola località arroccata sulle colline di Gansu, una provincia dell’interno che ospita però un’associazione culturale Han, un genere di club che, vista la prevalenza demografica di questa etnia, si è diffuso velocemente su tutto il territorio cinese. I più radicali tra i partecipanti rivendicano ora come una bandiera lo hanfu degli Han a loro dire soppresso dai guerrieri Manchu che conquistarono la Cina dal nord e governarono come imperatori della dinastia Qing dal 1644 fino al 1911. Gli Han radicali mostrano apertamente repulsione per gli attillati abiti Qpao e per le giacche dal colletto alto Manchu, segno distintivo del periodo Qing.
Dedicato allo hanfu c’è pure il festival culturale che si tiene ogni anno a Xitang, una cittadina 90 chilometri a est di Shanghai. Durante questo raduno i fan interpretano a loro modo il vestaglione: i più disinibiti lo combinano in bianco e nero, con sneaker del 21esimo secolo ‒anche se per i puristi questi colori sono proprio della dinastia Ming, sempre di etnia Han ma al potere 1100 anni dopo. Più corrette sono le versioni lilla e bianco ricamato con nuvole blu, tipico della dinastia Jin. Ma l’entusiasmo conta più della precisione. In realtà esistono centinaia di varianti di questo indumento: per rendersene conto basta accedere a uno dei numerosissimi siti di vendita on line come Holoong o lo stesso ebay.
PURISTI E NON
In occasione del festival, Starbucks schiera baristi in toga, si possono vedere “guerrieri” in fila per il caffè o “sacerdoti” taoisti in tunica che indossano anche un mantello per creare una “fusion” carina ma davvero poco filologica. Ragazzi e ragazze si fotografano l’un l’altro, suonano il flauto o praticano il tiro con l’arco. Hanfu diventano così tutte le forme di vestiti che gli Han hanno indossato nel corso degli ultimi 5mila anni.
Non tutti sono d’accordo però. I puristi pretendono una visione più ristretta: descrivendo una tradizione interrotta crudelmente con la scomparsa dell’ultima dinastia etnica Han, quella Ming, crollata a metà del XVII secolo. Se dovessimo tradurre in termini europei, è come litigare per una scuola di moda che presumibilmente iniziò nel Neolitico, fiorì nel Medioevo e può o non può essere terminata durante la guerra civile inglese.
‒ Aldo Premoli
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