Premessa. Sono attratto da tutto ciò che riguarda l’estetica giapponese, ma confesso di non possedere la preparazione per comprenderla sino in fondo. Non leggo un solo carattere di questa scrittura, non ho mai capito nemmeno la più concisa tra le frasi che mi abbiano rivolto in quella lingua. Ho viaggiato a più riprese nell’arcipelago, ho intrattenuto relazioni personali, ho visitato parchi, musei, luoghi di culto, ristoranti di ogni tipo e prestigiose scuole di moda, ma niente: il Giappone non sono arrivato a conoscerlo davvero.
In ogni caso, poiché sono stati loro, i “sarti” giapponesi, a venire in Occidente per farsi conoscere, è possibile a buon diritto ragionarne. Alla fine degli Anni Settanta, Rei Kawakubo, Yohji Yamamoto e Issey Miyake hanno bussato alle porte della Camera della moda italiana senza successo. I francesi invece li hanno accettati: il loro debutto è avvenuto nel 1982 e da quel momento l’attenzione della stampa internazionale (almeno di quella che “ci capisce”) si è accesa.
Merito di questa triade è stato anche quello di allevare uno straordinario gruppo di discepoli. Sì, esatto, “discepoli”: non esiste parola più adatta, perché un discepolo è cresciuto e protetto dal proprio maestro, ma a sua volta lo rispetta e lo onora. Qualcuno ricorda qualcosa di simile a casa nostra? Nessuno dei nostri celebri sarti ha mai lasciato eredi talentuosi. Altra “misteriosa” cultura quella giapponese… In particolare è stata Rei Kawakubo a essere stata una grande maestra. Da Parigi, durante le ultime presentazioni dell’autunno-inverno 2019, è arrivata l’ennesima conferma
JUNYA WATANABE
È universalmente riconosciuto come il protégée numero uno della Kawakubo. Nato nel 1961, Junya Watanabe ha studiato al celebrato Bunka Fashion College di Tokyo, ha cominciato a sfilare a Parigi nella boutique di Comme des Garçons nel 1993 per poi divenire una presenza fissa della settimana della moda parigina. Come per Rei Kawakubo, è sempre stato vasto l’impiego di tessuti sintetici nelle sue collezioni, che tuttavia, col passare del tempo, si sono addolcite, ricorrendo sempre più di frequente al cotone organico. La collezione presentata lo scorso febbraio l’ha chiamata Kawaii, in riferimento al culto dei più zuccherosi tra i cartoni animati giapponesi. Eccessivi e per niente sdolcinati sono risultati però hair e make up imposti alle sue modelle: ciglia finte di traverso, “troppo” rossetto rosa, parrucche nere, bionde, rosse o rosa con enormi “treccine”: le bamboline qui sembravano strapazzate da padroncini non proprio gentili. Gli abiti indossati? Bellissimi e miracolosamente possibili: per tutte, di tutte le età e di ogni taglia. Patchwork di stampe a fiori coloratissime tagliate da denim, bomberini, chiodi in eco-pelle o maglieria tricottata. Molte le giacche da uomo. Nemmeno uno spacco, nessun smodato décolleté, niente tacchi vertiginosi? Già, ma Junya è giapponese…
CHITOSE ABE
La stratificazione è alla base di questa collezione. Detto così pare persino banale, ma Chitose Abe la banalità non sa davvero cosa sia. Abe proviene pure lei dagli atelier di Tokyo di Comme des Garçons dove ha lavorato tanto sia per Kawakubo che per Watanabe. Ha debuttato con la sua linea Sacai nel 1999 e le sue collezioni sono apparse da subito assai complesse. La lezione di Rei Kawakubo in lei è evidente, ma potente è pure una vena romantica e l’uso di colori spesso squillanti del tutto personale. Nella collezione dello scorso febbraio sono il gioco dei volumi e le proporzioni dei pezzi accostati a risultare difficili, davvero sofisticatissimi. La collezione, anche in questo caso, è pensata per tutte, di qualsiasi età e taglia: ma non sarà da tutte la volontà di indossare mise così “astratte”. La sperimentazione che è propria del lavoro di Abe la porta ad avvicinarsi sempre a quello che noi occidentali definiamo couture, anche se i riferimenti sono lontani dall’utilizzo dei suoi capi in contesti da red carpet.
REI KAWAKUBO
Nessun designer giapponese ufficialmente ha mai deciso di fare un passo ufficiale verso l’haute couture, eppure non c’è sfilata di Rei che non possa essere accostata a essa. Come non c’è sfilata in cui anche i più efferati connaisseur non rimangano perplessi: ma la sua autorevolezza è così grande che nessuno osa avanzare un qualsivoglia dubbio. Stiamo esagerando? No, non c’è collega che non le renda omaggio: provate a chiedere a tutti i santoni di questo mondo in quale considerazione tengano Rei. Kawakubo ha aperto una serie di iper-boutique (ma lei le chiama “store”) in giro per il mondo. Si chiamano Dover Street Market in onore della prima aperta nell’omonima via londinese. Kawakubo è l’unica che può ospitare, insieme a pezzi delle sue collezioni e di quelle dei suoi protégée, un solo modello di Nike, una sola borsa di Prada, un tubino di Alaïa, sparsi qua e là accanto a un chiodo della più sconosciuta giovane griffe emergente: a suo capriccio, senza che nessuno osi rifiutarle qualcosa. Essere scelti da Rei per uno dei suoi Market equivale a ricevere un award alla carriera.
Per la sfilata dello scorso febbraio a Parigi ha proposto “un raduno di ombre”. Modelle racchiuse in armature di gomma nera con respingenti collocati su fianchi e spalle, cappucci torreggianti e acconciature “ecclesiastiche”; e ancora taffettà vittoriani e una gonna a palloncino che suggeriva la forma di una bomba inesplosa. Il tutto accompagnato dal suono di macchinari militari, una voce maschile dittatoriale, il rombo dei rotori di elicotteri, voci struggenti di bambini che cantano un inno di battaglia.
Non è la prima volta che Kawakubo dà voce alle paure sperimentate nella vita quotidiana, prima fra tutti il ritorno agli armamenti che nel XXI secolo vede protagonista l’Asia: No War era stampato sulla fantasia tartan di un paio di pantaloni. Tuttavia, il messaggio di Kawakubo non è completamente pessimista. “Molte piccole ombre, se si uniscono, possono creare qualcosa di potente”. Qualcuno sostiene che Kawakubo con questo show sovrintendeva una sorta di esorcismo rituale e tutto femminile. Ci è piaciuta questa collezione? I sarti hanno tutto il diritto di pensare, ma politica e psicologia, a differenza di tessuti, colori, forme e tagli, non dovrebbero essere il loro campo di azione. Tuttavia con una sfilata di Kawakubo il termine “piaciuta” non è adeguato alla situazione. Ho assistito a decine di sfilate Comme des Garcons, non ne ho mai capita una. Almeno immediatamente. A distanza di 6, 12 o 18 mesi ho poi immancabilmente constatato che la sua intuizione è sempre stata perfetta, in anticipo su tutto, capace di orientare l’intero mondo del fashion nelle stagioni seguenti. Questo mondo ha subito diverse trasformazioni, ne sta subendo una profonda anche ora. Ritengo che una nuova Rei Kawakubo non potrebbe più emergere con le regole in vigore attualmente. Esagero di nuovo? Se è così, non sono il solo. Negli ultimi cinquant’anni a due soli “sarti” il Metropolitan Museum ha concesso non una ma due esposizioni: si chiamano Yves Saint Laurent e Rei Kawakubo.
‒ Aldo Premoli
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