Il Giappone è un Paese dove esistono regole per noi gaijin spesso incomprensibili. Scuole e uffici restano anche oggi promotori di alcune delle più stupefacenti regole: in alcuni istituti scolastici è permesso alle ragazze indossare solo biancheria intima bianca, è imposta la lunghezza delle gonne e persino il colore delle calze. E c’è poco da sorridere: in Giappone esiste una parola per indicare il suicidio indotto da regole scolastiche opprimenti: “shidoshi”. C’è ovviamente chi si ribella, ma la pressione resta forte.
Nonostante ciò, l’intero mondo dell’abbigliamento tecnico sportivo che nasca proprio per esaltare la potenza e la libertà del corpo intrattiene un duraturo love affair proprio con i “sarti” giapponesi.
BRAND E SPORT
Persino Rei Kawakubo, la più influente, omaggiata e celebre tra i fashion designer orientali, a 75 anni suonati non disdegna di collaborare con un mega brand come Nike. Esattamente come accade a Yohji Yamamoto (75 anni pure lui) che da quindici progetta Y-3 di Adidas, la collezione che fa sfilare durante i fashion show parigini. È Jun Takahashi (49 anni), invece, che disegna da dieci anni la linea Gyakusou per NikeLab.
L’attrazione dei mega brand della calzatura sportiva per queste star del fashion nipponico affonda le radici nella particolare predisposizione dell’industria tessile giapponese alla sperimentazione, in particolare all’utilizzo delle fibre sintetiche. Utilizzo che è stato vasto a partire dal secondo dopoguerra anche in occidente, ma in seguito si è svilito nella percezione dei consumatori come “povero”, riservato a capi di basso prezzo e tutto sommato “poco sani”. Ricordate la passione per il cachemire? Negli Anni Novanta era considerata la fibra lussuosa per eccellenza, uno status symbol assoluto per la moda di quel periodo: una fatamorgana che non teneva in alcun conto – al di là della piacevolezza tattile ‒ le caratteristiche legate al prelievo, trasporto, lavorazione e possibile smaltimento di questa fibra. Da allora le cose anche in Occidente sono cambiate e la crescente consapevolezza ambientalista ha reso di nuovo accettabili i fili di sintesi: si tratta piuttosto di capire come vengono prodotti, quali performance li distinguono e come possono essere smaltiti senza danneggiare ciò che ci circonda. Ma se il “sintetico” non è più necessariamente messo in relazione con prodotti poveri, ciò è certamente imputabile all’uso a trecentosessanta gradi della sneaker e ai relativi brand produttori divenuti i veri leader del mercato dell’abbigliamento.
SNEAKER PER TUTTI
C’è una sneaker per qualsiasi fascia di mercato e a qualsiasi prezzo. Una Fila Disruptor la trovi a 100 euro. La Track di Balenciaga si aggira intono ai 550, la Run Patetent Neon di Louboutin a 800 e la Zig Zag di Louis Vuitton supera i mille. Anche il carosello di acquisizioni e cessioni testimonia in questo settore una vitalità mercuriale. Fila è nata a Torino, ma dal 2007 ha sede a Seoul. Nike ha acquisito Converse nel 2003. Adidas ha fatto lo stesso con Reebok nel 2005. Puma nasce da una scissione di Adidas, ma è poi stata acquisita dal conglomerato del lusso Kering, di cui fanno parte, tra gli altri, anche Gucci e Saint Laurent.
E i produttori di sneaker hanno cominciato a risalire la figura umana dal basso verso l’alto: prima qualche cappellino, qualche t-shirt, qualche felpa, per poi dilagare con capsule collection firmate dai più importanti designer del momento. Sino a imporre un mood che i consumatori utilizzano anche nella vita quotidiana, fuori da palestre, campi sportivi o piste di atletica. L’athleisure è stato adottato ‒ spesso stravolto rispetto alle intenzioni originali di chi lo produceva ‒ dai più giovani come stile e non più solo come abbigliamento capace di garantire particolari performance. Complici anche testimonial acquisti con budget stellari: star del basket, del calcio, dell’atletica, del tennis e non ultimi dell’hip hop. Chi disegna (o finge di disegnare) molte delle collezioni Puma? Rihanna, dotata certamente di una voce pazzesca, ma certamente non un’atleta. Adidas ha di conseguenza assoldato Beyoncé Knowles, Reebok Kendrick Lamar. Star occidentali per il marketing ma molti giapponesi per il design.
JUN TAKAHASHI
Entrare in uno store NikeLab significa ad esempio essere rapiti dalla personalità di un designer come Jun Takahashi, che collabora con lo swoosh intorno al progetto Gyakusou, alla base del quale sta un concetto tutto nipponico: “Raggiungere l’illuminazione attraverso perseveranza, resistenza e pazienza”. Proprio a questa missione mistica sono dediti i gira, i runner che si allenano correndo fra i cedri secolari intorno al tempio Togakushi, nelle montagne di Nagano, a 250 km a nord di Tokyo. Il significato del vocabolo Gyakusou è “correre al contrario”: Takahashi lo ha scelto per esprimere il senso del suo lavoro, recuperare lo spirito primigenio di queste foreste di cedri che sono il simbolo della storia, della cultura e dei colori della natura giapponese. Per questo, tra le infinite varianti di modelli Nike, la sua scelta è caduta ad esempio sulle Air Zoom Pegasus, dotate di un’ammortizzazione ultra reattiva che aiuta a prendere il ritmo e a concentrarsi sulla velocità: la suola è costruita per assorbire gli urti all’impatto e ottenere transizioni morbide e fluide. Le sneaker sono accompagnate da un abbigliamento costituito da due giacche leggere e due short dotati di soluzioni ultra-tecniche, in perfetto stile Lab. Sono pezzi che integrano ed evolvono un guardaroba runner tecnico e insieme chic, non sempre a prezzi così accessibili.
YOHJI YAMAMOTO
Se Takahashi riesce a fare di un capo tecnico un vero oggetto del desiderio, di certo non è da meno Yamamoto, che ha sempre fatto della seduzione un punto forte. Con Y-3 per Adidas, nell’ultima tornata di sfilate a Parigi ha proposto una linea fluida e priva di genere, con il tocco poetico che gli è congeniale. Sartoria e poesia per una linea solo teoricamente “tecnica”. Ovunque i volumi sono ampi e i sofisticati giochi di stratificazione tipici della scuola hanno davvero poco a che fare con un’attitudine active. I pezzi più fantasiosi sono elaborati a partire da tute da lavoro realizzate con un tessuto stampato chiamato toketa, che fa riferimento alla tradizione Ikebana. Si può essere sensuali infilati in tute zippate? Yamamoto le ha presentate come un’alternativa all’abito da sera, ma il maestro giapponese ci ha abituati a queste alchimie. “Tute” da serata importante da indossare con le sneaker ovviamente: le più interessanti sono le Mangostin, una riedizione aggiornata della più classica sneaker di Yohji per Adidas.
‒ Aldo Premoli
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