La mostra The Challenge di Tadao Ando (in collaborazione con il Centre Pompidou, fino al 28 luglio) è stata l’occasione per conoscere l’Armani/Silos che in tutti questi anni, lo ammetto, non avevo avuto l’interesse a visitare. Me lo figuravo infatti come un posto “alla milanese”, nel senso un po’ canzonatorio che a volte si dà a questo termine, a riferirsi a qualcosa di effimero. È vero, è un luogo “alla milanese”, ma nella accezione positiva del termine, che vuole indicare l’operosità, la creatività e lo spirito innovativo della città lombarda.
La mostra di Tadao Ando è ben riuscita: gli schizzi, i modelli, le video installazioni, i taccuini di viaggio e le fotografie esposti restituiscono con forza la pura e delicata poetica dell’architetto giapponese, amico e quasi coetaneo di Re Giorgio. L’architetto giapponese ha seguito il progettato di riqualificazione di una parte della ex fabbrica della Nestlè risalente al 1950, dove ora sorge il Teatro Armani, mentre il progetto relativo allo spazio espositivo, un tempo deposito di granaglie (da cui trae il nome) è stato realizzato direttamente da Armani.
Non voglio parlare di The Challenge però, ma degli abiti esposti nella collezione permanente che ripercorre gli oltre quarant’anni di carriera di Giorgio Armani.
“Collezione permanente” è un termine che si usa per indicare le collezioni museali di opere d’arte – e quelle esposte infatti, almeno per la maggior parte, lo sono. L’insieme delle forme dato dal taglio, dall’uso dei tessuti, dagli accostamenti, dalle contaminazioni con la moda orientale, dei colori, dei materiali, è senz’altro frutto di (a volte straordinaria) creatività e conferisce alla maggior parte degli abiti, in particolare a quelli femminili, un aspetto che trascende a mio parere il capo di abbigliamento e conferisce all’abito lo status di opera d’arte.
E così, proprio come in un museo, queste “opere” sono anche catalogate (lo spazio all’ultimo piano ospita un archivio digitale in cui le immagini dei bozzetti e delle creazioni sono catalogate con il sistema SIRBeC, il Sistema Informativo dei Beni Culturali della Regione Lombardia, con cui viene archiviato il patrimonio culturale lombardo, pubblico e privato, conservato all’interno di musei e istituzioni culturali) e alcune di loro in restauro.
Ho parlato di opere d’arte e richiamato quindi implicitamente il diritto d’autore: le creazioni della moda (abiti, borse, scarpe, accessori, tessuti, etc.) possono dunque essere tutelate tramite copyright?
Prima di rispondere bisogna però chiedersi in quale categoria di beni esse vadano ascritte. Se non vi è dubbio che i bozzetti facciano parte delle opere dell’arte figurativa e in quanto tali siano tutelati dall’art. 2 n. 4 della Legge Autore che protegge tra l’altro le opere dell’“arte del disegno”, gli abiti, le scarpe, le borse, gli accessori, a quale categoria appartengono?
In linea generale, si può dire che esse appartengono alla macro categoria del design industriale, di quel settore dove valori funzionali ed estetici sono inscindibilmente legati tra loro, e destinato a una produzione seriale.
DISEGNO O MODELLO
Questo tipo di creazioni sono proteggibili in Italia sia come “disegno o modello” (ai sensi degli artt. 31-44 del Codice della Proprietà Industriale e Intellettuale) sia tramite diritto d’autore (ai sensi dell’art. 2, n. 10, Legge Autore). La possibilità di cumulare le due forme di tutela è avvenuta solo nel 2001 con il recepimento della Direttiva 98/71/CE, che da un lato ha dettato una disciplina profondamente innovativa per i “disegni e modelli” (che hanno preso il posto di quelli che venivano chiamati disegni e modelli ornamentali, tutelati se in possesso di uno “speciale ornamento”), dall’altro ha introdotto all’art. 2 n. 10 delle Legge Autore un’autonoma categoria di opere “del disegno industriale” proteggibili al ricorrere dei requisiti di cui diremo a breve, per un periodo che dura per tutta la vita dell’autore e fino a 70 anni dopo la sua morte.
La riforma del 2001 ha in particolare eliminato dal nostro ordinamento giuridico il principio c.d. della “scindibilità”, secondo cui un disegno o modello era proteggibile anche tramite diritto d’autore solo se il suo aspetto estetico fosse stato scindibile dalla funzione utilitaristica: un determinato design doveva cioè poter essere applicato anche a tipologie di prodotti differenti, con la conseguenza che era automaticamente escluso dalla tutela il c.d. design di forma o tridimensionale, potendo invece essere oggetto di tutela il c.d. design bidimensionale, vale a dire le stoffe (come è accaduto per un disegno di Naj Oleari: cfr. Cass. 5 luglio 1990 n. 7077).
Una creazione della moda può quindi essere innanzitutto protetta tramite una registrazione (della durata di 5 rinnovabili fino a un massimo di 25 anni) per “disegno o modello” che tutela l’aspetto di un prodotto (o di una sua parte) quale risulta “dalle caratteristiche delle linee, dei contorni, dei colori, della forma, della struttura superficiale e/o dei materiali del prodotto stesso e/o del suo ornamento”, sempre che questo aspetto sia nuovo (cioè non precedentemente divulgato) e possegga “carattere individuale”. Si è in presenza di questo requisito (che non fa nessun riferimento a un giudizio estetico) quando il c.d. “utilizzatore informato” (che non va inteso come uno specialista del settore, ma come un fruitore ragionevolmente informato e avveduto) è in grado a colpo d’occhio di cogliere la differenza di quel determinato prodotto rispetto agli altri presenti sul mercato.
A prescindere dalla registrazione, in presenza dei requisiti appena visti (novità e carattere individuale), un abito, una borsa, delle scarpe, etc. che siano state divulgate possono godere della protezione accordata a livello comunitario al disegno o modello non registrato dal Regolamento 6/02/CE, che si ottiene senza formalità e dura tre anni dalla divulgazione. Questo tipo di protezione incontra perfettamente le esigenze di un mercato, come quello della moda, che si inserisce in una economia di breve periodo, in cui la collezione dell’anno precedente non è più attuale la stagione successiva.
CARATTERE CREATIVO E VALORE ARTISTICO
Ma torniamo al diritto d’autore. L’art. 2 numero 10 della Legge Autore afferma che sono protette “le opere del disegno industriale che presentino di per sé carattere creativo e valore artistico”.
Mentre il “carattere creativo” è il requisito che tutte le opere (letterarie, figurative, musicali, cinematografiche, etc.) devono possedere per accedere alla tutela autorale, e che si ha quando è individuabile l’impronta personale dell’autore, il “valore artistico” è un requisito ulteriore, richiesto dal legislatore solo per le opere di design, che deroga peraltro al principio secondo cui le creazioni dell’ingegno sono protette a prescindere da valutazioni di merito artistico.
Il legislatore non ha dato una definizione di “valore artistico”. Si può dire però che con esso abbia dato una precisa indicazione: quella cioè di riservare la tutela d’autore solo alla “fascia alta” delle opere di design che presentano un particolare gradiente estetico.
Le pronunce giurisprudenziali che si sono occupate della tutela del design tramite diritto d’autore sono relative prevalentemente a oggetti di arredamento. Tra i casi più emblematici ricordiamo quelle che hanno tutelato la Panton Chair di Verner Panton, la lampada Arco di Achille Castiglioni, e le sedute LC2 e LC4 (la nota Chaise Longue) di Le Corbusier.
Con riferimento al concetto di “valore artistico”, i giudici hanno cercato di ancorare il relativo giudizio a criteri oggettivi relativi alla percezione dell’opera di design negli ambienti culturali, affermando che è in particolare indice della qualità artistica di un’opera “il diffuso riconoscimento che più istituzioni culturali abbiano espresso in favore dell’appartenenza di essa ad un ambito di espressività che trae fondamento e che costituisce espressione di tendenze ed influenze di movimenti artistici, al di là delle intenzioni e della stessa consapevolezza del suo autore” (Trib. Milano, 13 settembre 2012), riconoscimento che avviene a esempio attraverso l’esposizione dell’opera di design in mostre, gallerie d’arte e musei o la pubblicazione in riviste e cataloghi d’arte.
In sostanza, si afferma che l’opera per godere di tutelata autorale deve essere portatrice di valori estetici che trascendono la semplice natura, in questo caso, di oggetto di arredamento, assurgendo invece a opera d’arte grazie all’apprezzamento e al riconoscimento del valore artistico da parte della collettività e degli ambienti culturali. D’altra parte, come abbiamo già rilevato (cfr. Diritto. Quando la fotografia è considerata arte?, pubblicato su Artribune il 20 marzo 2019), nei casi in cui il legislatore utilizza concetti metagiuridici, in questo caso il valore artistico, il giudice non può che fare riferimento allo specifico settore di cui questi concetti fanno parte, vale a dire al “mondo dell’arte”. E così, se questo stabilisce che un’opera del design è tale e questa viene esposta in musei e gallerie o inserita in cataloghi il giudice correttamente segue questa rotta.
LE PRONUNCE IN FATTO DI MODA
Torniamo alla moda. Le pronunce in merito sono ben poche e per lo più hanno negato la tutela autorale agli oggetti sottoposti all’attenzione dei giudici. Credo che questo sia accaduto semplicemente perché quegli specifici prodotti non erano in sé meritevoli di tutela e non perché un capo di abbigliamento non possa astrattamente assurgere alla tutela autorale.
Fa eccezione il caso dei Moon Boots, tutelati dal Tribunale di Milano con la sentenza del 12 luglio 2016, che ha affermato che il noto modello di doposci “costituisca a tutti gli effetti un esempio di come il design industriale possa talvolta portare l’arte, intesa come creativa e innovativa interpretazione del mondo, nell’ambito del quotidiano”.
Ritengo infatti che anche in una creazione della moda, grazie al particolare taglio dei tessuti, in grado di creare forme e disegni particolari, all’uso e all’accostamento di colori, di materiali peculiari e innovativi, al diverso posizionamento in un abito, per esempio, delle tasche e dei bottoni, etc., è infatti possibile individuare un “valore artistico” che trascende l’ambito, quello dell’abbigliamento, nel quale il prodotto è stato creato. A questo punto, secondo i parametri che abbiamo visto, dovrebbe poi accadere che gli “ambienti culturali” percepiscano queste forme come portatrici di un “valore artistico” e decidano perciò di inserire un abito nella collezione di un museo, di esporlo in una mostra o di pubblicarlo in un catalogo d’arte. Alla presenza di tutti questi elementi, non vi è dubbio che una creazione della moda possa essere protetta come opera del design ai sensi dell’art. 2, n. 10, Legge Autore.
Quando poi un abito sia un modello unico neppure destinato alla produzione seriale potremmo addirittura spingerci ad affermare che lo stesso sia tutelato non come opera di design, ma come opera dell’arte figurativa “pura”, ai sensi del n. 4 dello stesso articolo.
‒ Federica Minio
Estratto dall’articolo pubblicato sul sito web dello studio legale Morri e Rossetti
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