Il fashion non ha bisogno di rifiuti. L’editoriale di Aldo Premoli

Quanto incide il comparto moda nell’inquinare il pianeta? Ecco alcuni dati allarmanti. Ma c’è qualcuno che sta provando a rimediare.

La produzione globale di abbigliamento è più che raddoppiata negli ultimi vent’anni, mentre secondo Greenpeace le vendite sono passate da 1 trilione di dollari del 2002 a 1.8 trilioni nel 2015 e nel 2025 raggiungeranno i 2.1 trilioni. La stessa Greenpeace punta il dito contro il fast-fashion, capace di sfornare anche 10 collezioni l’anno, messe a disposizione di consumatori che acquistano in media il 60% in più di prodotti ogni anno, con una durata media dimezzata rispetto a 15 anni fa. Risultato: montagne di rifiuti tessili.

I NUMERI DELLA FASHION POLLUTION

Grandi quantità di energia, acqua e altre risorse sono state necessarie per confezionarli, come i pesticidi versati sui campi di cotone o le sostanze necessarie per i lavaggi in cui viene inzuppato il denim. Sono i numeri a spaventare: 1 kg di tessuto prodotto genera in media 23 kg di gas serra. 
E non è solo un problema di quantità dei volumi; si è trasformato anche il modo di produrre. Un materiale come il poliestere è decisamente più economico di lana, lino o cotone, e per di più è capace di performance a volte superiori. Un abito in pura lana o una giacca in lino appaiono sacchi informi rispetto a com’è possibile scolpire le forme del corpo quando entrano in gioco fili di poliestere, che esalta punti strategici della silhouette come torace, cosce e glutei. Il riciclaggio dei tessuti misti richiede però una separazione assai complessa. I metodi meccanici degradano le fibre, quelli chimici sono costosi e quindi poche aziende di abbigliamento sino a ora si sono preoccupate di utilizzarlo.

STOP ALLA DISTRUZIONE DELL’INVENDUTO

A Copenhagen, durante il Fashion Summit – uno tra i principali appuntamenti annuali in materia di sostenibilità dell’industria della moda – si sono fatti avanti Ceo di ogni parte del mondo con proposte più o meno convincenti. Emanuel Chirico, che possiede Calvin Klein e Tommy Hilfiger, ha dichiarato che entro il 2025 la sua azienda riciclerà tutte le camicie, i jeans e la biancheria intima prodotti. Brune Poirson, la ministra francese per la transizione ecologica e inclusiva, ha annunciato che tenterà di introdurre una legge per rendere illegale la pratica di bruciare o distruggere in altro modo i prodotti in eccesso. “Non può più accadere”, ha dichiarato, “che ingenti volumi di abbigliamento e accessori finiscano inceneriti o dispersi in altre maniere inquinanti”.

È dunque la Francia a porsi in testa ad azioni in favore della sostenibilità nel comparto tessile-abbigliamento.

Burberry, il più grande marchio di lusso britannico, è stato l’inconsapevole protagonista, lo scorso anno, di una feroce polemica dopo aver rivelato di aver bruciato 37 milioni di dollari in abbigliamento e cosmetici. Scopo: mantenere alto il “valore del marchio”. La pratica, in realtà diffusissima, è spesso stata utilizzata per evitare che oggetti indesiderati vengano venduti con sconti significativi su mercati paralleli.

NIENTE PELLICCE IN ATTESA DEL G7

Di fronte alla reazione degli acquirenti, in particolare i più giovani, sempre più consapevoli, Burberry ha dichiarato di voler sospendere la distruzione di merce invenduta, aggiungendo che avrebbe anche smesso di vendere prodotti confezionati con pelli animali. La prima collezione presentata dal suo nuovo art director Riccardo Tisci lo scorso settembre ha eliminato qualsiasi prodotto da realizzare in pelliccia. La decisione è stata accompagnata dallo stabilirsi di una partnership con Make Fashion Circular, un’iniziativa di Ellen MacArthur Foundation che mira a prevenire gli sprechi nell’industria.
È dunque la Francia a porsi in testa ad azioni in favore della sostenibilità nel comparto tessile-abbigliamento. Sempre in occasione del summit danese, François Pinault ha rivelato un progetto ispirato direttamente da Emmanuel Macron: l’obiettivo dell’Eliseo è mettere insieme gli sforzi di un gruppo di brand, industrie e distributori, in modo che la coalizione definisca un piano d’azione sostenibile da presentare al G7 di Biarritz il prossimo agosto.

‒ Aldo Premoli

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #50

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Aldo Premoli

Aldo Premoli

Milanese di nascita, dopo un lungo periodo trascorso in Sicilia ora risiede a Cernobbio. Lunghi periodi li trascorre a New York, dove lavorano i suoi figli. Tra il 1989 e il 2000 dirige “L’Uomo Vogue”. Nel 2001 fonda Apstudio e…

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