Una nuova ondata di innovazione sta trasformando in modo radicale il modo di produrre moda. Come ogni trasformazione, anche questa porta con sé qualche speranza e solleva pure un po’ di inquietudini. Mentre media tradizionali e social si affannano a inseguire la fata morgana dell’ultimo designer in giostra tra un marchio e il seguente nel backstage del tessile, tecnologia indossabile, cognitive computing e biotecnologie conquistano spazi rilevanti e impattano in modo deciso su ciò che indosseremo nel prossimo futuro.
Ce ne è un grande bisogno per affrontare i giganteschi problemi di sostenibilità che questo comparto produttivo crea al pianeta, ma è impossibile non avvertire disagio specialmente quando l’utilizzo pervasivo di AI avviene in aree di pensiero che siamo abituati a considerare legate alla creatività e all’emotività.
Gli algoritmi che riconoscono potere di spesa e abitudini di ogni utilizzatore della rete manipolano già attualmente ciò che appare sui nostri schermi durante una qualsiasi ricerca online: da un comunissimo paio di sneaker bianche a un bikini brasiliano.
Non si tratta però solo dell’utilizzo che viene fatto nella supply chain. Il cognitive computing ha fatto negli ultimi anni passi da giganti. Grandi gruppi o piccoli marchi del fashion, per decenni, si sono affidati a una rotazione intensa di designer bravi, bravissimi e meno bravi per individuare le nicchie di mercato più utili per i loro affari.
Dopo l’acquisto del marchio Christian Dior da parte di LVMH, avvenuto nel 1985, Gianfranco Ferré sostituì Marc Bohan per essere sostituito a sua volta da John Galliano, a cui hanno fatto seguito Heidi Slimane, Raf Simons e ora Maria Grazia Chiuri. H&M, a partire dal 2004, ha invece affidato a rotazione capsule collection, tra gli altri, a Giambattista Valli, Erdem, Stella McCartney, Alexander Wang, Olivier Rousteing, Roberto Cavalli, Viktor & Rolf, Jeremy Scott, Matthew Williamson, Alber Elbaz, Donatella Versace. Ma persino a Karl Lagerfeld e Rei Kawakubo. Le potenzialità messe a disposizione dall’AI potrebbero presto però trasformare in gran parte l’“arte” di questi designer in una scienza.
Poiché qui stiamo parlando di abiti da indossare e non di sfilate da guardare, occorre considerare come il cognitive computing è in grado di fornire previsioni di trend di un’accuratezza sino a oggi inconcepibile per qualsiasi cervello umano. Interagendo con le informazioni provenienti dai consumatori, algoritmi sviluppati all’uopo permettono di ordinare una elevatissima quantità di dati eterogenei forniti più o meno consapevolmente dagli acquirenti dei futuri prodotti: precedenti acquisti, comportamenti sui social media, tendenze politiche, sociali e ambientali, variabili demografiche ed economiche. Si tratta di piattaforme tecnologiche in grado di apprendere autonomamente e ragionare utilizzando il linguaggio naturale dell’uomo, comprese le capacità visive e quelle dialettiche. L’obbiettivo è fornire insight dettagliati in grado di ridurre il tempo e le risorse necessarie per confrontarsi con il mercato.
Una lezione fatta propria da Amazon, che a partire nel 2017 ha cominciato a testare Echo Look, il primo “consulente di stile“ AI al mondo. Echo Look analizza il tuo abbigliamento attraverso una speciale combinazione di algoritmi e “specialisti umani” con l’intenzione di rivoluzionare ciò che per la tecnologia significa stile. Amazon prevede inoltre di utilizzare un algoritmo capace di disegnare abiti analizzando immagini e osservando i look più popolari dello street style. Altri rivenditori online si sono messi su questa strada: il 75% di loro prevede di investire intensamente nel prossimo futuro in AI, anche se stare al passo con i giganti nell’utilizzo della tecnologia sarà sempre più difficile.
Di recente IBM ha messo a punto Watson, una piattaforma in grado elaborare milioni di dati in pochi secondi per restituire informazioni, know-how e persino indizi e suggerimenti per idee creative. In passato un designer cominciava a pensare alla propria collezione dodici mesi prima del suo lancio; oggi la competizione determinata dal fast fashion, capace di sfornare sino a venti mini-collezioni in un solo anno, obbliga anche i marchi del lusso ad anticipare i tempi di progettazione e produzione. Il cognitive computing è quindi diventato uno strumento chiave di lavoro: fornisce senza soluzione di continuità dati strutturati (numeri), ma anche dati non strutturati come immagini o il contenuto di una conversazione.
WGSN, la principale agenzia mondiale di previsioni nel fashion, lo ha già affiancato ai suoi metodi di ricerca più tradizionali. Una mossa che potrebbe ridurre gli errori di previsione fino al 50%. Perché gli errori possono avere conseguenze di vasta portata. H&M qualche tempo fa ha confessato di aver prodotto 4,3 miliardi di dollari di abbigliamento rimasto invenduto; ma i rifiuti del tessile costano non solo in termini di profitti: sono un temibile fattore inquinante. Utilizzando il machine learning per abbinare offerta e domanda, la produzione superflua potrebbe essere fortemente limitata e di conseguenza limitare l’impatto del fashion sull’ambiente. La buona notizia è questa.
‒ Aldo Premoli
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