Quale impatto ha avuto, e avrà, la pandemia sul mondo della moda? Quali sono le prospettive degli stilisti per i giorni a venire? Lo abbiamo chiesto a uno di loro, Antonio Marras (Alghero, 1961), in questa lunga intervista.
Per trovarsi bisogna innanzitutto crearsi, diceva Romain Gary. Tu dove sei? Com’è cambiata la tua percezione del tempo e dello spazio durante questo periodo di isolamento?
Io sono sempre fuggito da me, credo che per trovarsi sia necessario avere tempo, una volta si fuggiva in India per meditare per ritrovarsi, durante questo periodo invece abbiamo avuto la possibilità di fermarci, di guardare intorno a noi, di essere immersi in ciò che ci era più prossimo. L’unico posto in cui avrei voluto essere è a casa mia ad Alghero, dove ho trascorso questo periodo, occupandomi di più della casa, della quotidianità, avendo il tempo di godermi mio figlio Leonardo. Ho fatto lavatrici, sistemato gli armadi, partecipato a mansioni domestiche. In questi 45 giorni ho ritrovato il mio tempo, ho prodotto, come in un anno di lavoro, mi sono immerso in questo tempo, che prima era un ritaglio sfumato a fine giornata dopo i diversi impegni di lavoro, mi sono potuto dedicare a progetti a cui prima mi dedicavo solo durante la notte.
Quindi cosa ha significato questo tempo per te?
Per me questo tempo che mi è stato concesso è stato un tempo meraviglioso, senza pressioni esterne, questo tempo mi ha messo in contatto con persone che ho avuto modo di conoscere casualmente che magari avevo incontrato solo una volta, la percezione che avevo di queste persone arrivava dalle loro immagini postate sui social, eppure in questo periodo sono emerse connessioni immediate, è rinvigorita la scoperta e la curiosità per persone che non ho mai visto, intuendo e percependo delle affinità tra loro e me. Sto interagendo con alcune di loro, mi stanno inviando delle foto su cui sto intervenendo, fa parte di un progetto futuro che sto mandando avanti, un dialogo in cui in qualche modo ci si sente più liberi, ci si spoglia per concedersi il tempo di relazionarsi a uno sconosciuto. Il tempo della moda è un tempo diverso, in questo momento un tempo un po’ sospeso, la moda è morfina, istigatrice di desiderio di pulsione, le collezioni sono in fieri, si stanno focalizzando, sono filtrate e mescolate, un lavoro di bisturi, di potatura e scrematura, che sulla carta può apparire semplice, ma lavorarci concretamente diventa complicato.
Ti stai cimentando in qualcosa che non hai mai fatto prima?
Mi sono ripassato un po’ di film dei registi che amo, Bergman per esempio, mentre mia moglie Patrizia, come ha sempre fatto, ha letto incessantemente. Io ho avuto bisogno di fare altre cose, di dedicarmi ad altro, conversare in viva voce, dipingere, disegnare, anche mentre parliamo sto disegnando un’ape. Ho iniziato a prendere in mano ago e filo, approcciandomi al ricamo in modo sprovveduto e spontaneo, ho inventato il punto Rebibbia (come lo ha definito Francesca Alfano Miglietti). Infilzo, sprofondo l’ago nei tessuti, con gugliate lunghissime, lasciando nodi, fili che pendono, ho iniziato a farlo su capi agli antipodi, i miei ricami non hanno un disegno e non hanno un progetto, sono imprevedibili, il risultato è sempre indefinito, sconosciuto, un’improvvisazione che lascia tutto così com’è senza finiture. Mi è capitato per esempio di infeltrire un maglione di Patrizia, con un lavaggio sbagliato in lavatrice, dopo ci sono intervenuto con un ricamo, e adesso lei lo indossa.
Quali sono stati i progetti rimandati e quali quelli nati in questo periodo?
Intanto c’era miart, che è stato posticipato, dove avrei dovuto esporre con la galleria Rossella Colombari. Comunque con Rossella stiamo organizzando una mostra a settembre nella sua galleria a Milano. Poi ci sarebbe dovuta essere la mostra a Villa Carlotta a Como con Ferdinando Bruni su un progetto di Vitali, un lavoro a quattro mani di diari scambiati, dove io sono intervenuto su un vecchio manoscritto che mi ha inviato Ferdinando mentre lui è intervenuto su un mio taccuino, per un incontro finale al buio. Mentre proprio domani saremmo dovuti partire per New York, dove il mio spettacolo Mio Cuore sarebbe dovuto andare in scena al Mama per una settimana. C’è un progetto più immediato, un’opera pubblica che mi è stata chiesta in occasione della riapertura, dopo il restauro, di un padiglione storico dell’ospedale Sacco di Milano, un totem in ceramica che ho realizzato a Cutrofiano, con il supporto del maestro d’arte e ceramista Giuseppe Colì. Il mio viaggio per la Puglia è stato intenso. Sono voluto andare a Matera, mi ha molto emozionato rivedere la città ed entrare nelle sale di Palazzo Lanfranchi, dove finalmente ha riaperto la mostra Trama doppia. Maria Lai, Antonio Marras. In questi giorni di riaperture e di ripensamenti sull’arte e sul suo futuro ho risposto con entusiasmo a una proposta di Massimo Minini. Parteciperò con un’opera site specific ad Art ‒ Drive In (che inaugurerà il 21 giugno), la prima mostra collettiva in un’autorimessa, un interrato di 1500 metri quadrati, nello stabile al 45 di via Pusterla, sede delle Generali a Brescia. Sarà la prima mostra italiana che si potrà visitare in macchina, abbassando il finestrino, una fruizione alternativa e nuova dell’opera d’arte, ma anche una riflessione sul momento distopico che stiamo attraversando. Sarò in compagnia di altri artisti: da Mimmo Paladino a Giovanni Gastel a Oliviero Barbieri, per citarne alcuni.
È un momento storico dove l’intero sistema moda sta riflettendo su un rallentamento, su un approccio etico sia nella filiera che nella produzione, ci sono tante proposte da parte di brand emergenti che mettono in atto l’upcycling. Tu hai sempre avuto nel tuo approccio la poetica del riuso, come vedi questa possibilità?
Il riuso è un approccio che è sempre stato nelle mie corde, nella mia propensione a creare. La mostra alla Triennale di Milano di tre anni fa ne è stato l’esempio eclatante, in quel contesto e in quelle opere era perfettamente intuibile che quello in mostra era il lavoro di una vita, una mostra dove non c’erano abiti ma tutto quell’altro mio mondo che con la moda è confinante, è chiaro che quel lavoro ha richiesto tempo e anni per essere realizzato. Patrizia è un’accumulatrice seriale, è peggio di me, continua a raccogliere cose e a portarle a casa. Ogni volta che abbiamo buttato via qualcosa ci siamo immediatamente pentiti, pensando che dopo in fondo quell’oggetto sarebbe servito. Periodicamente sentiamo il bisogno di sistemare tutto, ma Patrizia invade nuovamente qualsiasi spazio. Io nasco minimalista, mi sporco nell’iter nell’andare avanti. Ridare vita a cose e oggetti apparentemente caduti nell’oblio, abbandonati, mi fa tornare in mente una canzone di Guccini che descrive perfettamente la mia poetica del riuso, l’anima, il sentimento che per me hanno gli oggetti abbandonati.
“Mi piace rovistare nei ricordi
Di altre persone, inverni o primavere
Per perdere o trovare dei raccordi
Nell’apparente caos di un rigattiere
Quadri per cui qualcuno è stato in posa
Un cannocchiale che ha guardato un punto
Un mappamondo, due bijou, una rosa
Ciarpame un tempo bello e ora consunto
Pensare chi può averli adoperati,
Cercare una risposta alla sciarada
Del perché sono stati abbandonati
Come un cane lasciato sulla strada.
Oggetti che qualcuno ha forse amato
Ora giacciono lì, senza un padrone,
Senza funzione, senza storia o stato
Nell’intreccio di caso o di ragione”
Se penso alla moda, alla poetica del riuso, penso alla mia prima sfilata quando esordii a Roma con la couture, una collezione totalmente improntata sul riuso, sulla nuova possibilità di vita che gli abiti possono avere. Ho realizzato l’intera collezione partendo dal regalo che mi fece mio zio, emigrato in Argentina: a mio fratello lasciò un negozio, a me il suo guardaroba. Con un intervento di smontaggio, rimontaggio, riassemblaggio sui vecchi capi, grazie anche alle mani preziose della mamma di Patrizia, abbiamo creato una nuova collezione, un modo di intervenire che per me si è espanso ed evoluto, ma che è comunque rimasto un continuum.
Una narrazione che percorreva un viaggio immaginario, dalla Sardegna all’Argentina, una storia di migranti su un piroscafo, il cambiamento e la trasformazione attraverso gli abiti di una donna, che passava dalle giacche maschili per proteggersi in barca fino ad arrivare allo scoprirsi con l’arrivo in Argentina, alla scoperta della sessualità…
Sei senza dubbio uno dei più grandi autori della moda italiana, che possibilità ti ha dato la moda nelle sue e nelle tue espressioni?
Fare abiti per me vuol dire trasferire i propri codici, esprimere un’estetica personale, mostrarla, trasmetterla, un’estetica che può essere accolta, assorbita, abbracciata, un modo di comunicare con gli altri, di intercettare altri linguaggi. Io credo che per me non ci siano alternative valide alla sfilata. La sfilata è l’apice di un lavoro corale, che fa condividere discipline e linguaggi che passano dal teatro, dalla coreografia, dalla regia. La moda dà una lettura del mondo in cui viviamo, la sfilata riassume, condensa tutto quello che io amo: intanto la regia, dover coordinare, montare un racconto, scegliere la musica fa parte dell’anima stessa delle mie sfilate e di quello che oggi chiamano storytelling. Parto sempre da uno spunto, da un canovaccio, da un racconto, Patrizia scrive una sorta di sceneggiatura che poi diventa un piccolo libro che regaliamo agli invitati delle nostre sfilate, un racconto che serve per fare un’ampia passeggiata, raccogliere materiale, fare ricerca. In questo periodo sto scegliendo di far rivedere i video di alcune sfilate storiche, l’ultima che ho scelto partiva dal racconto di una nobile russa, esiliata ad Alghero in epoca fascista.
Qual è il tuo desiderio oggi, dopo questo periodo?
Il desiderio più grande è restare a casa, ho scoperto una dimensione ideale: avere il tempo di fare le mie cose.
‒ Stefania Seoni
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