È ormai da qualche stagione considerata tra i talenti più in vista della Fashion Week parigina. E non solo per quello che mostra in passerella: il suo brand sta crescendo a ritmi sostenuti dopo il primo lancio avvenuto nel 2016, quando Marine Serre (Brive-la-Gaillarde, 1991) vince il Premio LVMH Young Fashion Designers, il più celebre e ricco tra quelli dedicati alle nuove promesse della moda.
Da allora Serre ha dimostrato di essere un tipo deciso, capace di sfidare le logiche tradizionali del fashion system, che peraltro conosce molto bene. Dopo essersi laureata ha lavorato con Sarah Burton da Alexander McQueen, Matthieu Blazy da Maison Margiela e Raf Simons da Dior. Ha lavorato anche per Balenciaga mentre dava il via alla sua linea.
Con la collezione primavera-estate 2023, presentata lo scorso 25 giugno, ad esempio, ha provato a dimostrare che materiali riutilizzati o deadstock possono avere una collocazione significativa nel mondo del lusso. A Parigi ha progettato la sfilata su una pista di atletica lunga 400 metri in sintonia con i valori trasmessi dal suo brand: inclusivo, etico e positivo. I modelli – scelti in una fascia di età compresa tra i 4 e i 60 anni ‒ includevano atleti, famiglie, amici e qualche celebrità. La Fashion Week di giugno è da sempre “maschile”, ma per Serre il genere è stato del tutto irrilevante, si è trattato piuttosto di un’occasione per sperimentare il suo nuovo approccio al tessuto.
LA MODA SOSTENIBILE DI MARINE SERRE
Ma facciamo un passo indietro. Sin dall’inizio Marine Serre ha impostato il suo brand intorno al concetto di design sostenibile. Tra i 67 dipendenti del suo staff la presenza femminile raggiunge l’81% tra i manager e il 100% tra i dirigenti esecutivi. Attualmente il business è valutato intorno a 15 milioni di euro e si appoggia a 225 punti vendita. Il 92% della collezione per l’autunno-inverno 2022 è costituito da materiali rigenerati (70%) o sostenibili (22%).
Per ottenere questo risultato Marine Serre ha sviluppato nello studio parigino un laboratorio che sostituisce la classica catena di approvvigionamento, punto dolente di qualsiasi produzione di moda. Qui vengono smontati capi già esistenti per ricavarne materiali da riciclare in nuove produzioni.
Marine Serre viene oggi riconosciuta ovunque come punta di un crescente movimento di upcycling che include anche designer emergenti come Conner Ives e Bethany Williams, o in Italia Diletta Cancellato.
Non era affatto scontato al suo esordio ‒ quando ha iniziato a comunicare di più sui suoi processi sostenibili ‒ che con questo tipo di sensibilità sarebbe potuta crescere. E invece le vendite sono salite del 95% dal 2019 al 2020. Nello stesso anno, Marine Serre ha lanciato il suo sito di e-commerce, che contiene informazioni approfondite sui prodotti e pezzi d’archivio ricercabili per materiale. Anche in questo caso l’attività è cresciuta del 30% nel 2021.
Serre si muove in questo modo ma lo fa all’interno delle logiche tradizionali dei marchi di lusso. È questo che rende la sua attività ancora più interessate: anziché porsi ai margini, prova a trasformare il settore dall’interno.
I COSTI DELL’UPCYCLING
In realtà, lungi dall’essere di matrice poverista, l’upcycling è un processo costoso: molto più semplice e meno caro approvvigionarsi di tessuti industriali che mettere in atto il processo di smontaggio e rimontaggio applicato da Serre: un capo completamente riciclato può raggiungere i 3mila euro esattamente come uno che preveda decisi interventi di artigianato. Per questa ragione Serre ha suddiviso il suo brand in quattro linee: Red (made-to-order), Gold (alta moda), Borderline (intimo) e White Line. Su quest’ultima punta in particolare per lo sviluppo quantitativo del suo brand. Con top e gonne o pantaloni riciclati venduti al dettaglio a 300 euro, prova ora ad ampliare la portata del lusso sostenibile oltre quella dei pezzi unici di alto costo.
‒ Aldo Premoli
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