Conclusa la Fashion Week di New York, termina in queste ore quella di Londra e sono in partenza quelle di Milano e Parigi, queste ultime le più gremite e significative per capire come si sta preparando il mondo del tessile al 2023.
A New York è risultato evidente il riconoscimento da parte dei marchi del potere delle presentazioni in presenza, così come evidente è stata una dose notevole di déjà vu.
Tom Ford, che si è recentemente dimesso dalla carica di presidente del Council of Fashion Designers of America, secondo alcune voci accreditate sarebbe in trattativa per vendere il suo marchio. Niente di straordinario: vendite e acquisizioni sono da almeno due decenni all’ordine del giorno nel fashion, ma in questo caso la vicenda appare un segno di come la struttura del fashion sia nel mezzo di un altro passaggio generazionale.
La immancabile frenesia mediatica suscitata dalle passerelle non ha potuto mascherare alcune notevoli assenze. Sparite da tempo le presentazioni di nomi storici come Calvin Klein o Donna Karan, nessuna traccia questa volta di Ralph Lauren, che ha spostato la presentazione a ottobre a Los Angeles; o di Marc Jacobs, arruolato di recente da LVMH, per lavorare insieme a Kim Jones alle collezioni Fendi; non si è visto neppure Jeremy Scott, che però sarà presente con la collezione disegnata per il brand Moschino a Milano.
Ma qualcosa a cui fare attenzione a New York è comunque successo. Sono numerosi i piccoli marchi che hanno optato per un approccio defilato delle loro collezioni, immancabilmente orientate alla sostenibilità. I loro designer hanno in comune il coraggio di porsi in maniera diretta le domande fondamentali su cui si interroga l’intero settore. Cosa significa effettivamente sostenibilità nella moda? Come è possibile bilanciare la crescita delle sue attività e l’impatto ambientale e sociale delle produzioni? Come si inserisce il calendario di una Fashion Week nella moda del futuro? Risposte certe non ce ne sono: ma porsi il problema, anziché affidarsi a uffici marketing e staff di comunicazione capaci di creare cortine di fumogeni “verdi”, è comunque un gesto di responsabilità non banale.
5 STILISTI DA TENERE D’OCCHIO
Saranno questi designer a guidare la nuova era del fashion sostenibile negli USA? Impossibile dirlo con certezza, ma meritano comunque attenzione. Ne segnaliamo cinque.
Emily Adams Bode (marchio Bode) ha aperto una nuova sartoria a Chinatown. Qui restaura abiti rispettando tecniche artigianali e i materiali antichi. Il suo background, del resto, la vede collezionista di oggetti d’antiquariato e vintage. Il vasto archivio di materiali a disposizione viene quindi utilizzato per eseguire riparazioni accurate. Per lei il riutilizzo è fondamentale: dove però vengono usati nuovi materiali, il processo di produzione è ideato per aiutare a generare un impatto sociale positivo per le comunità locali che lo attuano.
https://www.instagram.com/bodepersonal/
Angel Chang, nata in America da genitori di origine cinese, si è formata nell’atelier di Donna Karan. Produce capi senza impiego di elettricità e sostanze chimiche aggressive. Lo fa nei villaggi di montagna nella provincia cinese di Guizhou, dove ha trascorso mesi a conoscere le pratiche degli artigiani locali. Chang usa esclusivamente coloranti a base vegetale, si avvale per questo di foglie e petali rispettando i cicli stagionali. I suoi capi non conoscono la perfezione della serie: sono banditi elastici, plastica o metalli. Nel suo processo di progettazione a “zero emissioni di carbonio” è il trasporto aereo delle merci il vero tallone di Achille. Collabora quindi con l’organizzazione non profit di San Francisco Climate Neutral per compensare questo tipo di emissioni.
Erin Beatty (marchio Rentrayage) prova a combinare scorte deadstock con capi vintage riciclati, utilizzando il minor numero possibile di nuovi materiali. Il marchio annovera tra i suoi rivenditori dep store come Nordstrom, Neiman Marcus e Bergdorf Goodman; quest’ultimo ha ospitato la sua presentazione durante la Fashion Week di New York.
La possibilità di crescita della sua attività è legata alla disponibilità dei grandi marchi a riciclare i propri deadstock. La strada resta in salita: anche perché i materiali in questione vengono spesso forniti senza etichette di manutenzione, il che può significare non conoscerne esattamente la natura e i trattamenti subiti.
Da Brooklyn Kristin Mallison. si è guadagnata un notevole seguito: oltre 79mila follower su Instagram seguono il confezionamento dei suoi capi costruiti con arazzi riciclati. Le sue collezioni sono conosciute per il kitsch di uccelli o gattini, ritratti ad ago, e corsetti legati da nastri rosa su gonne ornate da frange decorate. Mallison trascorre molto tempo su eBay, Craigslist ed Etsy alla ricerca di arazzi vintage e mobili scartati da utilizzare come materie prime.
https://www.kristinmallison.com
Ashlyn Park (marchio Ashlyn), nata a Seoul, ha affinato le sue abilità presso Yohji Yamamoto e Calvin Klein. Utilizza fibre naturali a basso impatto come lino, cotone biologico e lana. Ha debuttato durante la Fashion Week aprendo la presentazione con una performance di danza contemporanea ispirata alla sua esperienza di prima maternità. I suoi capi sono progettati con l’obbiettivo di ottenere a rifiuti zero. Gli articoli non vengono mai preordinati o prodotti in serie, molti sono ottenuti da un unico pezzo di tessuto utilizzando un taglio che consenta di evitare qualsiasi spreco. Efficienza, consapevolezza e conservazione delle risorse permeano tutto il suo lavoro.
Per concludere una nota dedicata al marchio di calzature Allbirds. La produzione calzaturiera più avanzata in termini di sostenibilità ha iniziato ad abbandonare materiali a base di plastica derivata da combustibili fossili, per orientarsi verso alternative a base vegetale. Materiali alternativi alla pelle animale come il micelio (derivato dai funghi) stanno guadagnando terreno, ma siamo ancora in una fase start up, così durante la Fashion Week di New York Allbirds ha presentato Plant Pacer, una sneaker realizzata in Tencel con intersuola in acetato di etilene vinilico a base di canna da zucchero, polimero noto per la sua morbidezza. La suola e il fianco sono realizzati in gomma naturale. Plant Pacer si presenta anche in una versione in tela di cotone biologico.
‒ Aldo Premoli
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