Negli ultimi anni mi sono ritrovato spesso a parlare con gli artisti della mia generazione – quella dei nati negli Anni Ottanta – di quali fossero le principali influenze del nostro immaginario visivo. Tempo fa avevo perfino provato a delinearne una rozza fenomenologia attraverso una struttura binaria sulla quale si imperniava l’indice di un’ampia selezione di testi Dalla strada al computer e viceversa (così si intitolava il volume uscito nel 2017 per Libri Aparte). Dietro i due termini del rapporto si collocavano numerose accezioni che potevano indirizzarne il campo semantico di appartenenza: nella “strada” stavano comodamente i graffiti (o Street Art e Urban Art, come usa chiamarle oggi) e tutte le forme di comunicazione pubblica più o meno autorizzate (dai cartelloni pubblicitari al guerrilla marketing); nella “tecnologia” invece si parlava di rivoluzione digitale, videogiochi e Internet (pre e post), ma anche di tutte quelle produzioni influenzate dai processi macchinici e computazionali. Tutto sensato e pertinente, ma difficilmente riconducibile a un principio unificante, a una chiave di lettura, a un denominatore comune, a un’icona capace di condensare uno spirito del tempo, un’attitudine, una formula che sottendesse gli stili individuali.
L’IMPORTANZA DELLE AIR JORDAN NELLA CULTURA DI OGGI
Poi la scomparsa di Peter Moore (1944-2022), designer e art director di marchi come Adidas e Nike, leggendario autore del disegno delle tre strisce e “padre” delle Air Jordan 1, sneaker che per la loro fama vengono battute da Sotheby’s per 15mila dollari al paio come un ricercato multiplo d’artista, mi ha (ri)condotto a un pensiero, a un’ipotesi non così assurda. E se fossero proprio loro a incarnare l’essenza di ciò che stavo cercando? Quelle scarpe, esimie antenate di una dinastia destinata a dominare per decenni lo streetwear, fanno il loro debutto ai piedi di Sua Ariosità (His Airness è uno dei più noti soprannomi di Micheal Jordan) nel 1985. Non si tratta solo di una rivoluzione nel mondo dello sport o nel settore delle calzature, seppure negli anni precedenti le suole a strati uscite dai laboratori Nike avessero cambiato la scarpa da corsa; questa volta l’impatto sarebbe arrivato fuori dalla linea di fondo perfino nel mondo della cultura. Di lì a poco, infatti, il colosso statunitense scriverà pagine indelebili nella memoria degli adolescenti degli Anni Novanta grazie alla collaborazione con registi del calibro di Spike Lee o artisti come Futura2000.
“E se fossero proprio le Air Jordan 1 a incarnare l’essenza di ciò che stavo cercando?”
È innegabile quindi che i principali brand di abbigliamento sportivo abbiano caratterizzato un’epoca, dando vita a un panorama visivo fatto di poster, riviste, video e ambienti dei loro negozi, ben oltre la diffusione globale dei loro prodotti. In quest’ottica è giusto ricordare l’esperimento Swoosh curato da Sartoria Comunicazione tra il 1996 e il 2000, in cui contenuti sportivi e culturali venivano veicolati con un’estetica che pescava a piene mani dal pop e dall’underground. Non è un caso che un protagonista della nostra generazione come il compianto Virgil Abloh (1980-2021) abbia sempre inteso la scarpa come opera d’arte, riaffermandolo nelle sue produzioni e nel volume Icons. Something’s Off (Taschen, 2021).
‒ Claudio Musso
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #67
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