Era tutto pronto e si prospettavano grandi cose, ma dall’8 settembre – giornata in cui è venuta a mancare la regina Elisabetta II – il British Council, organizzazione che promuove i designer inglesi, ha dovuto gestire cancellazioni e cambiamenti all’ultimo minuto. Così la scena inglese è stata nuovamente depredata della vetrina che si meritava, e di cui necessita, dopo anni di esperienze digitali. Ad ogni modo, Londra – un tempo rivoluzionaria ed eclettica – segue incerta la settimana della moda newyorkese, aprendo le danze al periodo più mondano per la moda e condendo sfilate ed eventi con un pizzico di nostalgia, ovviamente dovuta al ricordo della gioventù della capitale inglese, la quale ha vissuto una prolifica era grazie a capi d’abbigliamento, eccentriche personalità e note musicali. Ora, però, il futuro dei giovani designer sembra incerto, dato che la London Fashion Week non riesce a riprendersi tra pandemie e complicanze di vario genere.
LONDON FASHION WEEK: LA LONDRA DI IERI
La “modaiola” Gran Bretagna rappresentata da Michelangelo Antonioni in “Blow Up” era impegnata e vivace allo stesso tempo, ed è stata questa ambivalenza a dettare il successo di un’intera nazione, sebbene quei problemi dovuti alle droghe e all’alcol – apparentemente accennati nel film – siano stati tramandati ai mitici anni ’70, non riuscendo più a liberarsene. E anche se Londra è stata abitata da Shakespeare, Elisabetta I, Turner e, addirittura, da “Orlando” di Virginia Woolf, la mitizzazione di tale città, e di conseguenza del paese che la ospita, è stata avviata da celebrità più contemporanee del calibro di Talitha Pol Getty e dei Beatles o da creativi alla pari del fotografo Butturini e della fashion designer Vivienne Westwood, giusto per citarne alcuni.
LONDON FASHION WEEK: LA LONDRA DI OGGI
Tuttavia, oggi tra le star dell’Inghilterra ci sono i giovani designer emergenti, la maggior parte sfornati dalla Central Saint Martin; ed è in questo modo che, tra l’annullamento del party di Hugo Boss e Naomi Campbell e Riccardo Tisci che ha deciso di spostare il proprio evento, l’attenzione si è concentrata totalmente su di loro. Questo, però, non desta scalpore – ma solo paura a causa della mancanza di celebrità e fotografi per le strade – perché Londra è solita promuovere la nuova generazione di creativi mediante progetti di scouting come il Fashion East; difatti, il calendario ufficiale della LFW ce lo dimostra proponendo alcuni designer inediti, i quali si rispecchiano in correnti stilistiche ormai diffuse.
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Eudon Choi, per esempio, incarna a pieno un delicato minimalismo che crede in una donna più androgina, alla pari di Daniel W. Fletcher che propone per il suo ideale maschile linee consimili al celebre stile British proprio di Burberry, svuotate dalla rigidità di un tempo e riempite da influssi di periodi storici differenti, in cui l’uomo era meno austero. E l’affermazione di questa estetica sul mercato europeo, ma anche globale, è dovuta allvittoria di S.S. DALEY – devoto ad una mesta classicità che sfocia in rassicuranti modelli oversize – del LVMH Prize, celebre iniziativa per creativi emergenti.
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LONDON FASHION WEEK: TRA TRADIZIONE E INNOVAZIONE
Eppure, Londra non si limita alla tradizione, bensì apprezza un po’ di bizzarrie – le quali, talvolta, sprofondano nel kitsch – tipiche di freschi designer come Chet Lo, che si è imposto grazie ad un concettuale knitwear arricchito da particolari “a punta”, o Susan Fang, devota a colori e drappeggi romantici, quasi fiabeschi grazie ai tessuti utilizzati. E quell’insieme di tinte, paragonabili alla disordinata tavolozza di Van Gogh, lascia spazio a toni più scuri e ad un approccio decisamente più erotico quando si parla di Nensi Dojaka, a tratti paragonabile ad un marchio di lingerie dato che il corpo, nella sua semplicità, regna sovrano e spodesta i tessuti semitrasparenti, ammaliando le influencer di mezzo mondo, o di Masha Popova, emblema della sexiness anni ‘2000 e dell’ossessione per il denim. Non solo loro, però, ma anche Dilara Findikoglu predilige la sensualità alla classicità, e addirittura il silenzio alla musica durante queste giornate di lutto in Inghilterra.
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Ma, nonostante la presenza di Richard Quinn, Simone Rocha e JW Anderson – originali a modo loro -, Londra non è più sede di sogni, anche per la presenza ridotta di figure forti a livello internazionale, capaci di trainare l’intera industria attraendo i grandi editori e i fashion blogger più seguiti, che dettano tendenze e rendono virali capi d’abbigliamento. Infatti, anche se Harris Reed ha aperto la settimana della moda londinese con una sfilata faraonica, pochi ne hanno discusso sulle piattaforme più affollate perché le celebrità – oggi al centro di una qualsiasi strategia di marketing – sono venute meno, insieme agli spettatori social ancora assuefatti dagli scintillii di New York.
LONDON FASHION WEEK: LA LONDRA DI DOMANI
Cosa, perciò, potrà salvare la LFW? Probabilmente un senso più pratico, mescolato ad una spiccata creatività incentrata sulla reale società inglese, non quella di un secolo fa né tantomeno quella dei quartieri più chic e intonacati o delle accademie di moda più sognanti. La moda vera ora è nascosta in quartieri come Hackney Wick, nei vicoli di Camden lontani dai turisti e nel sud della metropoli, dove i giovani si riversano e cercano di dare forma alla propria vita senza vergognarsi di ciò che sono, e anche senza stilisti locali che li diano voce.
Ora tocca alla nuova generazione ridare un senso ad un evento caduto nel baratro, sfruttando la visibilità dei vip e cogliendo il volere del pubblico – prima ancora di esso stesso – per tramutarlo in vestiti, come solo Galliano e McQueen hanno saputo fare e come pochi oggi sembra che possano replicare. Ma la maggior parte dei fashion designer inglesi hanno scelto un’altra creatività, quella che non fa giustizia alle vendite. Non è giusto né tantomeno sbagliato, è solo una scelta difficile.
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