Cosa sappiamo in più sulla moda sostenibile dopo le sfilate di Milano e Parigi?
Al netto delle sfide tra i grandi colossi del lusso, ad andare in scena sulle passerelle di Milano e Parigi sono state anche proposte che rispondono a una grande urgenza del presente: la sostenibilità. Tra tutti si è distinta Marine Serre
Sono in molti a trovare le classifiche una forzatura. Specie in un settore complesso e segmentato come il fashion, che senso può avere stilare classifiche? La tornata di sfilate per la presentazione delle collezioni uomo A/I 2023 si è conclusa la scorsa domenica dopo sei giorni di show a Parigi e i precedenti cinque a Milano. Manifestazioni del genere non sono assimilabili a una gara al cronometro o al campionato di calcio. Al di là del format (la sfilata in presenza), non pare ragionevole mettere a confronto Armani e Rick Owens, Fendi e Undercover. Eppure un senso va cercato in mezzo a questo diluvio di proposte costruite per essere replicate in milioni di pezzi acquistati in spazi di vendita sparsi in ogni parte del pianeta o direttamente con un click sulle piattaforme web.
LA MODA DA MILANO A PARIGI
Il “trend”, il “mood”, insomma la novità di rilievo di questa nuova edizione sarebbe il ritorno di un “nuovo” “fluido” formale? Da mettere in contrasto con l’hypebeast tipico dello streetwear di origine angloamericana? Le sneaker di Nike e Adidas hanno fatto il loro tempo? E come giustificare allora le proposte mash-up che arrivano da un mega show come quello del brand di lusso più potente al mondo? Che avrà voluto dire per lo staff al lavoro da Louis Vuitton mettere Rosalía a dimenarsi sul tettuccio di un’automobile disposta al centro di un padiglione creato per l’occasione nella Cour Carrée del Louvre? Di certo sappiamo che il giorno seguente è arrivata da Dior Homme la sfilata con recitativo di Robert Pattinson e Gwendoline Christie chiamati a declamare The Waste Land, il malinconico poema che T.S. Eliot scrisse all’indomani della Prima Guerra Mondiale. I capi disegnati da Kim Jones tanto “puliti” quanto “lussuosi” sono una proposta “cool” di quel che siamo abituati a vedere da Hermès? Eppure tanto Louis Vuitton quanto Dior sono marchi appartenenti alla scuderia di Bernard Arnault (LVMH), che anche con Bottega Veneta mostra di voler competere con il brand francese da sempre identificato come epitome del lusso. François-Henri Pinault dal canto suo, per arginare il possente rivale, per Kering ha schierato un Gucci senza Michele e senza troppa convinzione, affidandosi piuttosto al virtuosismo di Anthony Vaccarello, che ha portato Saint Laurent all’interno della Bourse de Commerce, sede della straordinaria collezione d’arte contemporanea del patriarca François Pinault. A Vaccarello ora Kering affianca altri due visionari come JW Anderson (Loewe) e Matthew Williams (Givenchy). C’è da chiedersi se sia Prada a rimane l’unico potentato italiano (però quotato alla borsa di Hong Kong) in grado di competere, in termini di capacità imprenditoriale, con i due colossi francesi. Per rispetto verso due generazioni di maestri giapponesi come Kawakubo, Yamamoto, Watanabe, Takahashi, Abe, va menzionato l’ottimo lavoro fatto, sebbene la corsa qui sia di altro genere.
MARINE SERRE COME ANSELM KIEFER
Spentesi le luci sulle passerelle la sera del 22 gennaio è lecito domandarsi: questo è tutto? Tutto come al solito? E invece no. Qualcosa di rilevante è avvenuto, qualcosa che, seppure lentamente, sta crescendo. Da Milano come da Parigi sono arrivate proposte che appaiono sintonizzate sulla sensibilità dimostrata dalle ultime generazioni nei confronti della crisi climatica. Fra tutte merita una speciale considerazione lo show di Marine Serre. All’interno di un grande spazio, Serre ha collocato tre torri ricoperte da altrettante tipologie di dead stock ‒tessuti stampati, borse e denim. Immediato è apparso il riferimento a I sette palazzi celesti, le apocalittiche sculture di Anselm Kiefer conservate al Pirelli HangarBicocca di Milano. Nel suo show Serre ha dato prova di come sia possibile ri-utilizzare la gigantesca sovraproduzione di materiali creata dal fashion. I primi otto look Serre li realizzati con materiali ricavati da borse invendute. Nel set successivo stessa operazione, ma effettuata con il denim. I capi in pelle Serre li ha realizzati con materiali lavorati senza sostanze chimiche o direttamente riciclati. Persino forme couture sono state ricavate da tessuti da tappezzeria combinati con sciarpe di recupero. “Non si crea nulla. Tutto si trasforma. Amare è riparare. Deve essere semplice. Veniamo riparati, veniamo riutilizzati… Veniamo ricuciti, veniamo ri-ricamati…”. Così Marine Serre ha commentato il suo show.
LA FRANCIA E LA SOSTENIBILITÀ
Solo sogni e buone intenzioni? Non è così. L’industria della moda, in particolare quella francese, sta passando dall’autoregolamentazione a una significativa legislazione su questo tema sempre più vincolante. Nuovi atti legislativi e clausole aggiuntive alle leggi precedenti spingono ora i marchi a fare sul serio: per una maggiore tracciabilità delle supply chain, un’etichettatura dei prodotti più trasparente per frenare il greenwashing e aggiornamenti alla responsabilità estesa del produttore (EPR), volti a ridurre gli attuali giganteschi sprechi pre e post-consumo. La Francia non è l’unica a cercare una legislazione più rigorosa, ma è certamente la più veloce a stabilire modelli da seguire. Qualcosa del genere però sta avvenendo anche negli Stati Uniti: in California, attraverso il Senate Bill 62, a Washington con il Fabric Act introdotto di recente dal Senato, a New York con il New York Fashion Act. In Italia non mancano convegni e tavoli di decisori in azione: quanto ad atti legislativi concreti, il ritardo è evidente.
Aldo Premoli
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