“Femminilità libera”, “parità di genere” e “rivendicazione dei diritti” sono parole talmente calpestate dal cosiddetto pinkwashing – ovvero l’apparente sostegno dell’emancipazione femminile da parte di aziende e non solo ‒ da risuonare come una filastrocca che si proclama per inerzia. Parole ormai svuotate della loro forza intrinseca per cavalcare l’onda del consenso e insabbiare dinamiche patriarcali che con esse hanno ben poco a che fare. A causa della sua propensione a tradurre le pulsioni dello Zeitgeist, la moda in queste circostanze è ambivalente. Se in certi casi scende in campo per estirpare norme e pregiudizi radicati nel nostro sistema sociale, in altri contribuisce a cementarne i mattoni. La pillola indorata cozza con i prontuari pubblicati ancora oggi su social e riviste, che illustrano come la donna si debba vestire ‒ e indirettamente parlare, agire, comportarsi ‒ plasmando il modello di femminilità che tutti conosciamo. Guardando ai vertici del fashion system sul fronte della parità, nonostante la presa si stia a poco a poco allentando, le donne al potere sono rarità elevate a fenomeno di vanto ‒ meno del 25% ricopre una posizione di leadership nei grandi marchi ‒, come nei casi della CEO di Chanel Leena Nair o di Francesca Bellettini da Saint Laurent. Fortunatamente da qualche anno a questa parte il tessuto culturale si sta smuovendo grazie a voci sincere che offrono una limpida lente attraverso cui guardare il mondo e sensibilizzare sulla condizione femminile. Che volente o nolente passa anche attraverso i vestiti.
CHE COSA DEFINISCE LA FEMMINILITÀ?
“La femminilità è una secrezione delle ovaie o sta congelata sullo sfondo di un cielo platonico? Basta una sottana a farla scendere in terra?”, scriveva Simone de Beauvoir ne Il secondo sesso, avviando una riflessione oggi attuale. Quando veniamo al mondo entriamo nel sistema sociale comunemente detto binarismo di genere, ovvero il bivio tra le cose “da maschio” e quelle “da femmina”, indotti spesso a confondere il sesso con il genere, e viceversa. Per di più, ci si ritrova dentro al paradigma che negli Anni Sessanta Betty Friedan definì “mistica della femminilità”: ideologia ancora esistente in veste di modello imposto che fa leva sul sentimento di inadeguatezza. La femminilità di per sé non può essere indottrinata dall’esterno, tantomeno essere intesa come schema da seguire, semplicemente perché ognuno è diverso. Al contrario, si può definire come un percorso di conoscenza personale attraverso cui scoprire il proprio modo di usare ed esibire il corpo. Ed è qui che la moda può rivelarsi uno strumento potente per esprimere sé stessi e ciò che si desidera essere.
LA FEMMINILITÀ INTERPRETATA DALLA MODA
Durante il corso della storia, la moda e il costume hanno accompagnato lotte e cambiamenti nel modo di percepire la femminilità, traducendo le intenzioni a suon di cerniere, allacciature e orli. Basti pensare alla conquista dei pantaloni nell’abbigliamento femminile durante la Seconda Guerra Mondiale, alle minigonne, alla Peacock Revolution del 1966 che ha riportato ricami e broccati tipici del Settecento nell’abbigliamento maschile, o all’androginia del celebre Le Smoking di Yves Saint Laurent sullo scenario di rue Aubriot. Anche le recenti passerelle pullulano di esempi virtuosi, dalla Giovanna d’Arco di Dilara Findikoglu alle “stelle a digiuno, affamate di comprensione” di Marco Rambaldi. Contribuendo a un processo sociale e politico in perenne evoluzione, che sfida gli standard mescolando e ribaltando le norme imposte. Fino a che punto? Fino a quando la vergogna innescata dalla società sparirà, la paura sarà davvero sostituita con la genuina curiosità, e definire in autonomia chi siamo non scatenerà più il panico. Noi di Artribune abbiamo approfondito il tema nella scorsa puntata di Fashiontribune, nuovo format in diretta ogni mercoledì alle 20 sul nostro canale Twitch, con l’intervento della fashion designer Jezabelle Cormio, fondatrice del brand omonimo, e con il team della rivista indipendente Mulieris Magazine.
Aurora Mandelli
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