Il Consiglio dei Ministri ha approvato, lo scorso 31 maggio, il disegno di legge “Made in Italy” dotandolo di un fondo sovrano di un miliardo di euro. Scopo dichiarato quello di promuovere le filiere del legno-arredo, del tessile, della nautica, della ceramica e dei prodotti orafi. Il provvedimento indica misure di sostegno quali Istruzione e formazione, Promozione, Tutela e Lotta alla contraffazione. Si tratta di misure certamente utili ma insufficienti, che nel complesso rispecchiano una visione del Made in Italy parziale e angusta. Una precisazione: il termine Made in Italy non è sovrapponibile a quel fenomeno sociale, economico, estetico e perfino filosofico che viene genericamente indicato con il termine “moda”. Il Made in Italy è una singolare combinazione di tradizione e innovazione: un fenomeno senza precedenti che negli ultimi venti anni dello scorso secolo è stato premiato da un successo del tutto imprevisto ‒ inizialmente addirittura guardato con sospetto ‒ nelle sedi istituzionali.
In particolare il Made in Italy della moda è sostenuto da oltre 60mila aziende con più di mezzo milione di addetti. Un tessuto produttivo unico e di recente sotto attacco internazionale: quasi contemporaneamente all’approvazione del ddl romano, a Bruxelles solo due giorni dopo veniva infatti approvata la Relazione relativa al dovere di diligenza delle imprese ai fini della sostenibilità che non promette niente di buono per le nostre PMI. Il ddl approvato il 31 maggio prevede di celebrare con un’apposita giornata individuata nel 15 aprile di ogni anno “le bellezze storico artistiche e le radici culturali nazionali come fattori da preservare e trasmettere per la crescita dell’economia del Paese”. Nelle poche righe di cui si compone, inoltre articola alcune indicazioni esposte con un linguaggio molto semplice. Ma “semplice”, troppo semplice, risulta pure il suo contenuto: e qui le cose si fanno insidiose.
I PUNTI DEBOLI DEL DDL SUL MADE IN ITALY
La visione è povera e le iniziative indicate appaiono decisamente insufficienti per affrontare quel che sta accadendo sui mercati internazionali. In particolare il ddl risulta fortemente deficitario sul profilo del sostegno all’innovazione: vocabolo che non appare mai nel documento. Senza innovazione, però, l’azione di sostegno alla produzione moda in Italia perde drammaticamente di forza così come diventa inefficace qualsiasi altra misura. I tempi eroici (quelli degli Anni Ottanta e Novanta), in cui le PMI italiane sono state in grado di mettere in campo sempre nuove “invenzioni” riuscendo a battere agguerriti e finanziariamente più dotati concorrenti, sono definitivamente esauriti. L’erosione del primato italiano, da una parte sul versante del lusso (sempre più egemonizzato dai francesi), dall’altra su quello del fast fashion (egemonizzato da spagnoli, giapponesi e svedesi) è sotto gli occhi di tutti. La celebratissima “creatività” dei nostri designer non è sufficiente a competere se non è accompagnata dalla costante attività di innovazione delle aziende che questa creatività devono mettere a terra. L’economia della complessità e il paradigma della sostenibilità hanno reso la partita assai diversa rispetto a quanto accaduto in passato. Il Made in Italy della moda continuerà a esistere a condizione di non appiattirsi su vaniloqui identitari.
“La visione è povera e le iniziative indicate appaiono decisamente insufficienti per affrontare quel che sta accadendo sui mercati internazionali”
PATENT BOX: COME FUNZIONA?
Per comprendere quel che sta accendo la vicenda del Patent box è esemplare. Si tratta di uno strumento di agevolazione fiscale che prevedeva la detassazione degli utili realizzati grazie al patrimonio intangibile di un’azienda (know how, spesso fatto da risorse di fiducia e relazioni tra persone interne ed esterne al sistema, software, design e brevetti innovativi…). Quello del patrimonio intangibile è un fenomeno peculiare delle PMI italiane più virtuose, che sono comunque in numero elevato nel tessile italiano: anche per questo il Made in Italy della moda (e non solo) è stato sino a oggi capace di esprimere una così grande efficienza e produzioni di qualità. Chi conosce per davvero come funzionano le PMI sa quanto, da soli o in combinazione con altre attività, questi elementi consentano a un’impresa di generare un rendimento superiore a quello medio del settore e un vantaggio competitivo durevole. Nel 2022 però questa misura è stata devastata dalla riforma approvata dal Governo Draghi in occasione della Legge di Bilancio. La riforma draghiana del Patent box è stata a lungo usata dalle opposizioni nelle aule parlamentari come cavallo di battaglia per dimostrare la distanza dal Paese reale dei politici al governo nella XVIII legislatura. Con la nuova normativa, a essere danneggiate sono state migliaia di PMI di successo a favore dei pochi grandi gruppi multinazionali. Passati dai banchi dell’opposizione a quelli del Governo Meloni, i nuovi legislatori il cavallo di battaglia lo hanno però rinchiuso in scuderia, ben serrato, per non infastidire le successive Leggi di Bilancio. Nessuno ne fa più cenno. Come accaduto con il Governo Draghi, dunque così sta accadendo con il Governo Meloni: la vicenda evidenzia come il distacco tra i decisori politici e la realtà del Paese sia strutturale. Troppa accademia prima, poca perizia ora? In ogni caso imprecisa è proprio l’idea del funzionamento della macchina industriale che regge la moda italiana. È sempre stato così? Magra consolazione.
Aldo Premoli
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