No, la pelle animale non prevede l’uccisione mirata di esseri viventi per ottenerla. E sì, è ecosostenibile. Ma queste dichiarazioni nette sono di Luca Boltri, vicedirettore di UNIC Concerie Italiane: la più importante associazione degli industriali conciari che spazia dalla promozione degli interessi della categoria fino alla valorizzazione del ruolo sociale ed ambientale di questa. Un ruolo non facile quando si parla di pellame. Anche se sulla pelle e sull’arte conciaria, dal punto di vista scientifico, “si sa tutto e il contrario di tutto”. Ma è stata proprio l’intenzione di chiarire cosa implichi produrre prodotti in pelle a condurre il ritratto veritiero di un settore nato con l’uomo.
L’intervista a Luca Boltri
Pelle e cuoio vengono spesso associati ad atrocità di cui sono vittime gli animali…
È una fake news. Purtroppo una parte non secondaria dell’opinione pubblica crede che la pelle usata nella produzione di accessori, mobili o qualsiasi altra cosa preveda l’abbattimento dell’animale. Ma non è vero perché oltre il 99,5% delle pelli lavorate dall’industria conciaria hanno origine bovina e ovicaprina. Questi vengono allevati e abbattuti per la loro carne perciò la pelle non è altro che un sottoprodotto: sostanzialmente uno scarto che noi recuperiamo, ricicliamo e stabilizziamo attraverso il processo meccanico-chimico di concia. E se le pelli non venissero raccolte da noi, dovrebbero essere smaltite come un normale rifiuto con notevoli costi economici e ambientale.
Quindi la pelle è paradossalmente un materiale ecosostenibile, ben più della ecopelle…
Noi evitiamo la creazione di rifiuti, tra le principali cause del surriscaldamento globale. Ci definiamo circolari per natura: è da quando l’uomo cacciava che utilizzava pelli e pellicce dopo aver abbattuto l’animale per cibarsi. Difatti l’UNIDO, Organizzazione delle Nazioni Unite per lo Sviluppo Industriale, ha stimato che se l’industria conciaria non dovesse più esserci in futuro, ciò causerebbe la creazione di una quantità di gas serra aggiuntivi tra le 3 e le 5 milioni di tonnellate. Un effetto che dovrebbe essere valutato quando viene detto che non siamo sostenibili.
E invece tutti pensano che utilizzare pelli sintetiche sia più ecologico e salvi vite animali…
Può essere frustrante non essere capiti, e questo è anche dovuto al cambiamento del rapporto tra uomo – animale. Cinquanta, sessanta o cento anni fa la gente era più consapevole di ciò che le ho appena detto. Veniva dato un peso maggiore a questi aspetti. Oggi c’è una mancanza di conoscenza.
Perché c’è chi racconta che il vostro sia un settore crudele?
Noi scontiamo il fatto che non siamo molti amati dagli animalisti più radicali, che sostengono l’abolizione totale dell’uso di prodotti animali. C’è molta etica personale in tutto questo. E anche opportunismo nell’attaccarci con la scusa che la pelle non sia un bene primario, a differenza della carne è qualcosa di cui si potrebbe fare a meno. Il nostro è un prodotto voluttuario per molti e, secondo me, siamo condannati a questa definizione impropria.
Qual è l’elemento assolutamente sbagliato in quella narrazione della pelle?
L’estremizzazione. Fin quando l’uomo consumerà la carne animale, ci sarà la pelle grezza da trattare. Quindi ci saremo anche noi.
In un articolo pubblicato qui su Artribune, una giornalista afferma che “i produttori di pelle farebbero pressioni, anche indirettamente, sugli allevatori per macellare più animali, i cui scarti finiscono per sovvenzionare l’industria della moda”. È vero?
No, perché noi non influenziamo le dinamiche di allevamento e abbattimento dell’animale. Queste dinamiche dipendono dalla domanda di carne, e l’Unione Europea le ha regolamentate in tutto e per tutto. Il valore della pelle grezza è circa l’1% dell’animale nel suo complesso, quindi il nostro ruolo corrisponde a quella percentuale lì.
Si parla spesso di materiali alternativi alla pelle. Quali sono?
Innanzitutto i materiali sintetici, perciò la plastica. Un esempio è l’erroneamente detta “ecopelle” di cui accennavamo prima, che oggi non si può più chiamare tale in Italia grazie ad un decreto perché di fatto non è pelle. Solo quella naturale lo è, ora anche per legge. I materiali sintetici ad imitazione pelle, come li chiamiamo noi, derivano da fonti fossili quindi dal petrolio, con tutte le conseguenze legate alla sostenibilità sia a fine vita del prodotto sia durante la produzione. Poi esistono i materiali plant-based di origine vegetale. Il problema è che vengono mischiate componenti come frutta o verdura ad altre di origine fossile. Sennò non potrebbero avere l’elasticità e la tenuta necessarie per ragioni tecniche.
Quindi sono valide queste alternative?
Bisogna aspettare per una valutazione e vedere quanto dureranno questi materiali, essendosi appena affacciati sul mercato. Alcuni studi hanno evidenziato che la componente biologica di eventuali alternative alla pelle si aggira sul 40% massimo. Contrariamente a quanto si evince dalla loro comunicazione. Oggi la moda e i media pongono molta attenzione a queste novità del settore, e capisco anche che se ne senta la necessità. Ma solo il tempo ci dirà se sono valide alternative perché innanzitutto devono essere industrializzate. A quel punto devono garantire performance, qualità e sostenibilità, e non tutti riescono. Io però non vedo materiali che rispettino questi aspetti come la pelle.
Crede che debba cambiare qualcosa nella narrazione dei materiali alternativi?
L’attacco, con argomenti falsi, alla pelle. E il greenwashing perché la sostenibilità deve basarsi su parametri scientifici ed oggettivi, alla pari del marketing. Sennò tutto è sostenibile e tutto è insostenibile.
Invece dovrebbe cambiare qualcosa nel modo in cui la moda fa uso della pelle animale?
Dovrebbe valorizzare di più la pelle come elemento di sostenibilità del prodotto moda. Basti vedere quanto può durare un capo o accessorio in pelle: solitamente il triplo di quanto durino gli stessi ma in materiali sintetici. Forse si ha paura a schierarsi su questo argomento? Adesso l’esistenza del capo d’abbigliamento interessa meno rispetto al cambiare ogni stagione un paio di scarpe.
Probabilmente alcuni marchi hanno paura in questa specifica fase storica. Dunque lei crede che il futuro sia la pelle?
Se il futuro vuole essere sostenibile, sì.
E come crede di convincere, in veste di Vicedirettore di Concerie Italiane, chi questo oggi non lo sa?
Noi non abbiamo un rapporto diretto col consumatore perché vendiamo la pelle a chi produce le scarpe. Spesso la gente non capisce chi siamo e questo complica la sensibilizzazione, l’educazione alla pelle. Internet e i social però ci stanno aiutando, di pari passo a rapporti con studenti e giornalisti.
Giulio Solfrizzi
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