Qual è la differenza fra riadattare un cappotto come si fa in tempi di guerra o povertà e reinventare dei capi di couture da abiti “semplici”? Rientra tutto nell’attualissimo concetto di upcycling, nella strategia di riuso come risposta all’eccesso di produzione di abiti? Ma come si fa a distinguere un’operazione di styling da un vero e proprio progetto creativo e che valore ha un capo creato da un mix di più brand, famosi o no? Il fatto che non ci siano risposte precise a queste domande spiega quanto l’argomento sfugga alle logiche regole di mercato, per entrare in quelle emotivo filosofiche di un’alternativa al sistema moda.
L’ABITO COME DOCUMENTO
C’è sicuramente l’effetto ricordo di quando ascoltiamo un vinile o guardiamo i negativi: sappiamo che oltre a riguardarci, sono meravigliosi soprattutto perché sono documenti e non dati, c’è qualcosa che ne impedisce l’uso seriale, che smentisce l’efficacia dell’intelligenza artificiale. L’argomento sconfina naturalmente nella poesia, nella filosofia, nella scrittura prima che nel disegno, dove anche l’abito è il documento protagonista di una storia, che può essere eterna. Eterna come il bisogno nei momenti difficili, in una condizione che genera altro che diventa meraviglia: come accadde nel cinema con il Neorealismo quando la scarsità di pellicola o altri mezzi generava quelle soluzioni alternative che hanno fatto la storia.
LA MODA POVERA DI OLIVIER SAILLARD
Quella stessa condizione, ma al contrario generata dall’eccesso, sta nella forza drammatica del lavoro dello storico e curatore di moda Olivier Saillard, in quella che lui chiama Moda Povera, in un italiano neorealista. La sua Moda Povera non è una collezione ma è un atto creativo quanto performativo, dove il concetto di rielaborazione e reinvenzione di una vera couture si manifesta nella vestizione e nel movimento della modella, un movimento evocativo che proietta anche la creazione più audacemente mite nel mondo dell’iconografia patinata di moda. Un rito che Saillard mette in scena sempre con la stessa modalità di lentezza, di rapporto con l’abito come se fosse un’opera d’arte da allestire più che un vestito da indossare. Oramai uno stile che ha sperimentato con interpreti come Tilda Swinton o con Axelle Doué che compare anche in questo quinto atto della Moda Povera.
LA PERFORMANCE DI OLIVIER SAILLARD
Un lavoro di scena ma anche di elaborazione di archivio, sapientemente realizzato insieme a Gael Mamine. Una teoria che risponde in parte alle domande che ci siamo posti all’inizio: spiega che la trasformazione può generare un altro organismo solo se affrontata con competenza, chirurgica ma anche poetica, con la follia romantica di Mary Shelley e la capacità sartoriale di Saillard e Mamine. Alla Fondazione Cartier per l’arte contemporanea, nell’ambito de Los Soirées Nomades, abbiamo visto “Moda Povera V – Les vetements de Renée”, uno dei capitoli più coinvolgenti di questo racconto dedicato alla madre di Saillard, Renée scomparsa da due anni, e realizzato con i suoi abiti. Basterebbe questa descrizione a spiegare perché ci si commuoveva vedendo Saillard che vestiva la modella, non giovane, e le sistemava i capelli con amore di figlio prima che di artista. Ma non era solo quello che si vedeva a emozionare: c’era un testo, una voce, una descrizione di ogni abito reinventato recitata con l’impostazione della sfilata tradizionale, quella che descrive l’abito nella forma e nei materiali, che ora negli show di moda è sostituita da colonne sonore. Quelle descrizioni erano brevi poesie capaci di accompagnare la memoria di una donna che sicuramente non avrebbe mai immaginato come il suo armadio sarebbe diventato un archivio così prezioso, di pezzi trasformati per diventare una forma di lusso raro, dove anche “l’usura diventa ricamo”.
L’ESECUZIONE DELLA PERFORMANCE DI OLIVIER SAILLARD
23 uscite accompagnate da 23 descrizioni/poesie, ognuna con un titolo capace di trasformare la tecnica descrittiva in una nuova forma letterale, generando altro anche qui come avviene per l’abito: la manica non è tagliata ma dimenticata, le camice non si uniscono ma si riconciliano, fino al Petit Rien della fine. Un testo che va oltre la descrizione didascalica, apparendo come un trattato filosofico che elogia il “poco”, eleva l’armadio ad archivio, recita quel numero di telefono da dove forse lei ancora risponde e osserva quanta malinconia ci sia in un particolare come un collo. Un’altra vita per quegli abiti rimasti “orfani per lunghi mesi in un armadio”: si trasformano in un catalogo di emozioni che rende aristocratica la povertà. “Renée era la madre di Dany, Jocelyne, Michel, Lucette, Sylvie e Olivier, rossa di capelli con un viso armonioso come lo sono le bellezze degli anni quaranta, aveva un temperamento singolare e guidava il tassì e questa”, come dice Saillard, “fu la sua libertà”.
Clara Tosi Pamphili
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