Cosa succede alle nostre calzature quando smettiamo di usarle? Che fine fanno le scarpe usurate? Da questi interrogativi è partita la ricerca di David Braccini, 25enne toscano proveniente da una famiglia con una lunga tradizione nel settore. Ma è partito anche Dotzero, brand sostenibile di calzature, nello specifico sneakers, con l’obiettivo di impattare il meno possibile sulla natura e sulle persone.
Quando è nato Dotzero?
Circa 2 anni fa, durante il Covid, quando il tempo per pensare e soprattutto agire era tanto. Era già un po’ che avevo l’idea di creare un prodotto che cambiasse il modo in cui vengono utilizzate le scarpe, pensando soprattutto al loro utilizzo e al “fine vita”.
Perché hai scelto Dotzero come nome per il tuo progetto?
Dotzero è il punto dove tutto inizia e tutto finisce, come il ciclo di vita dei prodotti che poi vengono concepiti. All’inizio il nome era stato concepito solo con la punteggiatura e il numero (“.0”), in modo che fosse universale e per tutte le lingue; poi, con la necessità di avere un naming, si è trasformato in “Dotzero”.
Qual è la filosofia alla base del brand?
Quella di riutilizzare i materiali il più a lungo possibile, in modo che non ci siano sprechi; di conseguenza far convivere prodotto, persone e natura all’interno dello stesso ecosistema. Gli artigiani italiani, coloro che stanno alla base del progetto, sono fondamentali nella creazione di queste scarpe.
Quali sono i materiali usati per la realizzazione delle calzature?
Abbiamo due linee con modelli diversi. La prima viene concepita con un monomateriale che si trasforma in due lavorazioni. Si parte dalla lignina, un sottoprodotto dell’industria della carta (scarto di lavorazione del legno) che viene trasformata in biopolimero. Così facendo, riusciamo a ottenere un materiale flessibile con caratteristiche simili a quelle della plastica che possiamo utilizzare per più applicazioni, come la suola e il filato per la parte superiore. Questo aspetto è fondamentale perché, avere una scarpa creata dallo stesso materiale di partenza, ci permette a fine ciclo vita di riciclare e dare vita a nuovi materiali.
E per la seconda linea?
Per quanto riguarda la seconda linea che nasce dalle scarpe recuperate, viene costruita la suola. Gli scarti di pelle animale di grandi aziende del distretto toscano servono per la parte superiore, al posto delle alternative alla pelle che adesso non hanno caratteristiche tecniche, oltre a quelle di sostenibilità, in linea con la nostra filosofia.
Le vostre calzature sono associate agli NFT. Come mai?
Gli NFT sono una nuova frontiera che stiamo sperimentando. Nel nostro caso servono a dare un’identità unica per ogni prodotto, quindi a raccontare la storia di ogni pezzo e garantire la provenienza di ogni materiale nonché del processo di lavorazione. In questo modo, ciascuna scarpa “racconta” la propria storia. Stiamo anche sperimentando un sistema di accumulo punti che potranno essere usati al momento di riparare i prodotti.
Invece quali sono le sfide che un brand indipendente deve affrontare al giorno d’oggi per emergere?
La prima è proprio quella di trovare il giusto mercato. Sembra quasi scontato dirlo, ma non possiamo parlare a tutti. In seconda battuta, c’è il problema della distribuzione perché, soprattutto all’inizio, non è semplice trovare chi è disposto a produrre piccole quantità di prodotti a prezzi abbordabili. L’ultima necessità, ma non per importanza, è quella di farsi notare. Nel mondo di oggi, dove tutti siamo in grado di postare e creare contenuti sui social media, spiccare diventa il problema principale, anche se alla base del progetto c’è grande ricerca sul prodotto.
Valeria Oppenheimer
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