Cronaca nera ed estetica pubblicitaria. Quando lo stupro è fashion. La storia della pubblicità D&G
Dopo la violenza carnale consumatasi a Palermo, una fotografia ha ripreso a circolare tra i profili social di tantissimi utenti in Italia. L'equivoco sulla data dello scatto, l’indignazione, l’insofferenza. E il dibattito sull’influenza che la comunicazione pubblicitaria esercita su costumi e malcostumi sociali…
La scena pare quella di un atto sessuale. La ricostruzione patinata di un rapporto di gruppo. Tanto è il lusso che trapela da ogni dettaglio, tanto è il livello sotteso di violenza. Una pubblicità, che vuoi che sia. Il branco sulla preda. O “cento cani su una gatta“, come si divertiva a raccontare agli amici uno dei protagonisti dello stupro avvenuto a Palermo lo scorso luglio, in una zona buia del centro storico: un corpo qualunque, una vittima a caso, una che ci doveva stare, così espansiva, così allegra, poi intontita dall’alcol, trascinata nella tana, e se invece si divincolava, implorando una tregua, che importa, ormai il castigo se lo doveva “accollare”. I lupi erano tanti, affamati; lei, il pasto nudo da consumare sul bordo della notte.
Dalla cronaca alla fiction. La foto di D&G
Fin qui la cronaca, nera e oscena, di un fatto che ha scosso la città e poi l’Italia l’intera. A cui altri fatti si sono susseguiti, dalla Sicilia in su, nel giro di giorni, settimane. Caivano, Milano, Monreale, Marsala. Incarnazioni del male, tra abusi di orchi, femminicidi, violenze collettive per mano di amici, conoscenti, familiari.
Il risentimento della gente è straripante, incontrollato, una furia che monta contro gli aggressori. Anche se, la pecorella palermitana – poverina – un po’ più attenta poteva stare. Così dicono (e non in pochi: dal chiacchiericcio social fino ai vertici delle istituzioni). Mai fidarsi di chi non conosci bene, mai perdere la lucidità, mai dare troppa confidenza, mai uscire da sola la sera. Meglio non bere, non vestirsi succinte, non flirtare. Condizione di allerta perenne. Che evidentemente non basta mai, visto che, come statistica insegna, tutti questi fattori non sono né ricorrenti, né significativi, rispetto alle storie di violenza sulle donne. Ribaltare le ragioni della colpa, spostare il focus del problema, confondere la natura degli accadimenti: vecchia abitudine, infarcita di maschilismi e di paternalismi, così dura a morire.
La controversa pubblicità di Dolce & Gabbana
Dall’altro lato, la fiction. Un’immagine costruita che nulla c’entra con questo angolo melmoso di realtà, e che pure, a rivederla adesso, fa impressione. Si tratta del celebre scatto di una campagna Dolce & Gabbana datata 2007. Impossibile non rintracciare corrispondenze, inconsapevoli giochi di riflessi. Quell’aggressione simulata, che forse voleva solo essere la rappresentazione di un erotico rendez-vous griffato, ha ripreso a circolare in rete dopo la vicenda di Palermo, mentre la stampa continuava a diffondere dettagli sulla vittima, sulle bravate degli stupratori, sulle dinamiche raccapriccianti e le squallide intercettazioni. A firmare la foto Steven Klein, artista statunitense di fama mondiale, che ha all’attivo collaborazioni con brand, testate e personaggi di primissimo piano. Un grande talento, con un personale immaginario noir, spesso screziato da accenti violenti, smaccatamente erotici, intensamente conturbanti.
Nulla di strano. Sull’arte mai mettere bocca, mai invocare censure, mai cercare margini morali o moralistici entro cui imbrigliare sensibilità, perversioni, attitudini, fantasmi, paure e diletti di un autore. La storia della letteratura, del teatro, del cinema, delle arti visive di tutti i tempi non ha fatto che rivendicare la sacrosanta libertà di indagare la luce come il buio, l’illecito e il peccaminoso, l’abisso come la superficie, i cieli tersi e le cavità oscure, il tragico e il satirico, l’apollineo e il dionisiaco. Regalando al mondo secoli e secoli di capolavori. Qualunque esperienza di discesa agli inferi, nel quadro di una valida, profonda elaborazione artistica e intellettuale, ha modo di generare nuovo senso, tra esercizi di esplorazione drammaturgica, estetica, poetica. Ricercando un incastro significativo tra forma e contenuto.
La pubblicità rimossa in Italia e Spagna
Quella, però, era una pubblicità. Formalmente ben costruita, ma evidentemente traballante sul piano della comunicazione. Pubblicità significa sempre, al di là di tutto, finalità commerciale, diffusione capillare e di massa, logiche del mercato e meccaniche connesse alla costruzione dell’identità del brand. L’effetto disturbante in quel caso fu potente. Moti di disapprovazione pubblica si scatenarono, finché in Italia e in Spagna si decise di rimuoverla. Troppo equivoco il soggetto, riconducibile a una situazione di abuso: lei, tenuta per un braccio, distesa, inerme, loro a incombere sulla sua bellezza statuaria, avvoltoi scintillanti pronti a divorarne ogni centimetro di passività. Quale il senso? Una violenza fastidiosamente tirata a lucido, romantizzata, estetizzata, camuffata da appetitosa goliardia; un teatrino della seduzione per giovani ricchi, potenti, gaudenti, a cui tutto è concesso. Avrebbe dovuto conquistare i consumatori, solleticandone le fantasie, ma finì col toccare corde delicate, spazi del rimosso e del terrore, inghiottita da un senso di inappropriatezza, di gratuità.
Dal 2007 ad oggi come cambia la comunicazione
Riesumata dunque a distanza di sedici anni, la fotografia si è diffusa daccapo tra i profili Facebook e Twitter di tantissimi utenti, al margine dei fatti di Palermo. E qui la solita superficialità e indignazione a comando, che avvita le dinamiche social in un presentismo babbeo e in una controproducente viralità. Non esistono verifica delle fonti, cronologia, storia, non esiste fermarsi un attimo a ragionare. In molti hanno creduto che la campagna fosse nuova, addirittura successiva allo stupro del 7 luglio. Scandalo.
E invece tutto va contestualizzato, sempre. Per correttezza d’informazione. E per lucidità d’analisi, anche. Sedici anni non sono pochi e in questo lasso di tempo un lento e sofferto lavorio, sul piano dell’opinione pubblica e dell’azione degli organi di controllo, ha trovato progressivo spazio. La soglia della tolleranza si è abbassata, la coscienza dei diritti calpestati e dei cliché pericolosi si è fatta più acuta, il ricorso a codici di comportamento, strumenti di monitoraggio e campagne di sensibilizzazione ha trovato maggiore diffusione. Un processo avviato, che chiederà impegno ulteriore e ulteriori rivendicazioni, per epurare la comunicazione pubblicitaria da stereotipi patriarcali, sessisti e tossici, fino a qualche decennio fa assolutamente normali, poi via via decostruiti, messi in discussione. Dalla donna serva, casalinga, prostrata al marito-padrone che non disdegnava ironicamente di brandire persino la clava – narrazione così in voga negli anni ’50 – molto è cambiato. E così, anche questa rappresentazione di donne oggettificate, iper sessualizzate, utilizzate come segni-esca nella sintassi di testi visivi porno-oriented, non è più accettata come 30 o 20 anni fa. Seni e fondoschiena in primo piano, fisici perfetti, liturgie dell’adescamento e bambole sexy tutte uguali, utili a reclamizzare qualunque tipo di prodotto, da un orologio a un tubo di silicone: un’attitudine non sconfitta, ma finalmente passibile di contestazione, spesso dibattuta, a volte smantellata in favore di nuove campagne inclusive, intitolate al senso di realtà e alle differenze tra corpi assolutamente normali.
Stupro ed estetica pop
E ne abbiamo viste tante, negli anni, di campagne equivoche, controverse. A proposito di ammiccamenti allo stupro, per esempio. Simile allo scatto incriminato di D&G è una foto in bianco e nero realizzata per la campagna A/I 2010 di Calvin Klein Jeans dal duo di fotografi Mert Alas e Marcus Piggott: protagonista la diafana e sensuale Lara Stone, supermodella amatissima dal marchio, attorniata da un branco di maschi in assetto predatorio. L’Australia, per scelta dell’Advertising Standards Bureau, scelse di ritirarla. Fece rumore anche l’ampio editoriale confezionato nel 2006 da Steven Meisel per Vogue Italia, “State of Emergency”: qui le polemiche travolsero autore e rivista per l’allusione palese alla tortura e all’abuso di potere da parte della polizia, a cui si sommarono gli immancabili riferimenti erotici. Bellissime donne, avvenenti, desiderabili, bloccate e aggredite da uomini in divisa, non tralasciando dettagli indigesti, come quel piede di lui premuto sul collo di lei, a soffocarla, o le mani infilate tra cosce e glutei, confondendo palpeggiamenti e perquisizioni. Fantasie magari scontate, nel privato. Ma ancora una volta, cosa accade se tutto questo diventa pubblicità patinata, pervasiva, offerta al rapido consumo di tutti, in cui la violenza è al servizio della veicolazione di ideali a misura di consumatore? Il lusso, la bellezza, l’erotismo da passerella, la bramosia della merce, l’ostentazione di un brand.
L’arte e la fotografia al servizio del patriarcato?
Si tratta, è vero, di opere di fotografi eccellenti, ma i meccanismi del discorso pubblicitario sono noti e fanno storia a sé. Produrre desiderio, a cavallo di sottili frustrazioni indotte, significa instillare nel soggetto-massa, attraverso bombardamenti percettivi, il bisogno di emulazione e l’impulso all’acquisto. La pubblicità vende promesse di felicità, nutrendo (a piccolissime dosi) la condizione di infelicità propria di chiunque aspiri a un cambiamento, a un upgrade sociale, a un miglioramento fisico, a uno status symbol ulteriore. Desiderare e poi conquistare una merce: una forma di eros. Che siano abiti, cosmetici, pozioni dimagranti, lingerie provocanti, automobili, gioielli, dispositivi hi-tech, cibi, oggetti pop che segnino l’appartenenza a un gruppo, a una comunità. Corpi e cose, tra metafora e concretezza. In gioco c’è la costruzione di identità leggere, mutevoli, accreditate socialmente e dunque rassicuranti. Mentre il perno è l’ossessione del consumo: di modelli, di stereotipi, di beni più o meno preziosi oppure usa e getta, di servizi più o meno superflui o intelligenti.
Non una pratica da demonizzare, che ha certamente prodotto riuscitissimi e interessanti casi di narrazione, ma che va analizzata con lucidità. Consapevoli di quanto sia fondante, nel marketing e nella comunicazione di massa, l’attitudine a stimolare parametri di riferimento, influenze sull’immaginario popolare e sulle scelte dei consumatori, sfruttando proprio quei luoghi comuni e quelle ataviche distorsioni culturali che sono garanzia di identificazione, da parte del pubblico medio.
E il sesso e il potere, così interconnessi a livello dell’inconscio e delle relazioni umane, restano ingredienti efficaci della ricetta base: la stimolazione del desiderio è tutt’uno con la volontà di possesso, dominio, controllo, conquista. E di consumo, naturalmente. Strategie che poggiano e si incastrano su una millenaria tradizione di stampo patriarcale, dinanzi a cui le istanze femministe sono una conquista giovanissima. Rappresentazione icastica di questa prospettiva, tra i molti esempi possibili, è quella pubblicità in cui il pube di una modella, venerato un giovane uomo in ginocchio, è marchiato a fuoco con la griffe Gucci: la vagina come feticcio deluxe da concupire.
Censura, cultura: l’oggettificazione del corpo femminile
Ma può davvero una pubblicità rafforzare un immaginario violento, che oggettifichi la donna fino a farne realmente una preda? Probabilmente no, ma è un segno. Un dato. Un indizio. Un elemento tra mille. Specchio di una cultura ancora radicata, stratificata.
La censura è la strada? Non lo è, di norma. Al massimo è il sintomo di una reazione in atto, non rappresentando però una soluzione definitiva o un fattore di svolta. Lo è il dibattito, piuttosto, l’esercizio critico, la diffusione di un pensiero e di una consapevolezza differenti. Così cambia, lentamente, la maniera di sentire il mondo e le cose.
E se, a proposito di evoluzione dei costumi e delle idee, l’ipotesi della famosa ora di educazione sessuale/sentimentale nelle scuole pare farsi sempre più urgente, a dispetto di un conservatorismo bigotto di cui l’Italia non è mai pronta a disfarsi, bisogna pur staccare lo sguardo dalla singola immagine eletta a capro espiatorio e chiedersi quanto sia centrale la questione della dipendenza rispetto a certe meccaniche apparentemente invincibili. Un immaginario dopato, il nostro, in cui la questione del desiderio, cosi centrale, resta piegata a logiche spregiudicate di natura prevalentemente commerciale, spesso imbevute di ammuffite retoriche maschiliste. Mentre da un lato si rafforza, fortunatamente, una cultura dei diritti, del rispetto, dell’emancipazione femminile, sopravvive lo spettacolo sociale di corpi e relazioni a una dimensione, svuotati di senso, divorati, disumanizzati, appiattiti, vetrinizzati. Contenitori di merci e merci a loro volta. L’odierno male del disamore, di cui ancora ci sfuggono i contorni, trova il suo spazio di coltura proprio qui, fra il tramonto dell’empatia e il dominio di soggetti-oggetti da cui scivola via il sentimento dell’altro, così vitale.
Helga Marsala
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