Da qualche stagione Domenico Dolce e Stefano Gabbana ospitano durante la fashion week milanese un giovane stilista. Lo scorso 24 settembre è stato il turno di Karoline Vitto, mentre in precedenza si era trattato dei fashion designer londinesi Matty Bovan e Miss Sohee; e poi del giapponese Tomo Koizumi. Per l’occasione i fashion designer milanesi finanziano la location, i costi dello show, il casting, i capelli e il trucco, gli accessori e lo styling. Ma soprattutto mettono a disposizione i loro atelier e dead stock a cui attingere: per chi debutta si tratta di un’occasione unica e, come evidente, non solo per l’esposizione massiva a un pubblico altrimenti irraggiungibile in questa fase delle loro carriere. Questa opportunità offerta da Domenico e Stefano è un’azione simile a quella intrapresa da Jean Paul Gaultier con i talenti (da Glenn Martens a Chitose Abe) che hanno costruito sotto la sua ala collezioni per la Haute Couture parigina. In ambo i casi, si tratta di un’idea intelligente e generosa: i prescelti dal duo milanese come quelli del grande couturier parigino si sono rivelati di grande talento, soprattutto capaci di andare oltre le prospettive un po’ stantie di tante altre passerelle.
L’idea impossibile di corpo della moda
Karoline Vitto fa parte di un gruppo sempre più importante di fashion designer donne che include Phoebe English a Londra, Ester Manas a Parigi e Hillary Taymour di Collina Strada a New York, che mettono al centro del loro lavoro senza infingimenti concetti come inclusione e sostenibilità. Quello che colpisce immediatamente in questo, come in tutti i precedenti show di Vitto, è il cast: una prova che la bellezza è possibile anche al di fuori dalle taglie impossibili di cui le super model anni ’80 e le più anonime colleghe rappresentano da sempre. Il fashion system ha gigantesche responsabilità su questo versante. I corpi non dovrebbero essere una “tendenza”: dei problemi di salute mentale creati da questa distorsione si parla ancora troppo poco ma non per questo non esistono. Il celebre adagio dell’ossuta Coco Chanel, “non si è mai troppo ricche, né troppo magre”, è nei fatti un’affermazione criminogena quando, ripetuta all’infinito, diventa senso comune. Occorrerebbe al contrario favorire la crescita di una nuova generazione di individui con minori problemi di salute mentale legati a un ideale impossibile del corpo. Al contrario, l’attenzione dell’intero fashion system in questa direzione è quasi nulla.
Chi è la stilista Karoline Vitto
Così non è per Vitto. Nata in Brasile e residente a Londra, si è laureata al Royal College of Art specializzandosi poi al Fashion East dove per due stagioni ha sfilato nell’incubatore di talenti di Lulu Kennedy. Oltre alla predilezione per le modelle curvy, Vitto si è fatta notare per la particolare costruzione dei capi: ad esempio, per i collegamenti metallici ad anello che uniscono ritagli di tessuto e scorrono intorno ai fianchi; gli stessi che possono curvare invece attorno al seno e congiungersi alle spalline regolabili costituendo al tempo stesso un sistema di contenimento per corpi differenti e un decoro. Si tratta di costruzioni per niente scontate che a un “sarto” di grandi capacità come Domenico Dolce devono essere sembrate decisamente interessanti. Da quando ha fondato il suo marchio nel 2020, Vitto si cimenta nella costruzione di taglie comprese tra la 42 e la 58, esercitandosi in questo tipo di modellistica e nella conseguente classificazione. La sfilata dello scorso 23 settembre a Milano ha incluso 30 look, significativamente più numerosi rispetto alle due precedenti sfilate londinesi in cui Vitto ha presentato 10 e poi 12 look. Gli show di Vitto possono rivelarsi difficili per chi li avvicina per la prima volta, ma la riflessione arriva immancabile. Le modelle classificabili plus size, difficili da reperire in qualsiasi agenzia specializzata, risultano comunque dotate di forza seduttiva. Anche il fashion system, dove il termine “novità” è brandito come una bandiera, porta in sé un conservatorismo che prevede difficoltà nell’uscire da schemi prefissati. E tuttavia anche qui sono gli stilisti più giovani, meno appesantiti dai filtri del mestiere, a percepire per primi le nuove sensibilità che li circondano: ciò di cui, oggi più che mai, ha bisogno l’industria della moda nel suo complesso.
Aldo Premoli
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati