Sovversiva, caotica, provocatoria. Capitale della moda anti-sistemica per eccellenza, nonché culla di quelle che un tempo erano le cosiddette sottoculture giovanili, Londra si è sempre lasciata plasmare dall’incontro-scontro d’identità, intessendo così la sua attitude selvaggia e fai-da-te. Un caleidoscopio sperimentale, e innovativo, all’insegna di una prossemica che “prospera nel disordine”, per dirla con Nassim Nicholas Taleb, glorificando le sue pulsioni più disturbanti. Nel concreto, è il 1993 quando il British Fashion Council fonda il NEWGEN, un programma volto a supportare (soprattutto finanziariamente) i talenti emergenti della moda britannica, che con la mostra REBEL: 30 Years of London Fashion vengono oggi celebrati negli spazi del Design Museum di Londra. Attraverso la curatela di Rebecca Lawin, in collaborazione con Sarah Mower (ambasciatrice per i talenti emergenti del BFC) la rassegna – aperta fino all’11 febbraio e prossimamente in tour – pone l’accento sulla vena tanto stravagante quanto rivoluzionaria dei suoi “geni ribelli” nel cucire le coordinate emotive del made in UK in queste tre decadi, accogliendo un centinaio di creazioni. Dall’esordio in technicolor di Christopher Kane per la primavera-estate 2006, passando per la Union Jack Jacket di Russel Sage, l’abito-cigno di Marjan Pejoski indossato da Björk, le ruches di Molly Goddard consacrate all’hype da Rihanna, fino alla mise gonfiabile di Harri per Sam Smith.
Alexander McQueen e la simulazione di Taxi Driver in mostra a Londra
Animo inquieto e frontman dello scandalo in questa squadra di agitatori è stato Alexander McQueen. Dopo la laurea alla Central Saint Martens, per l’autunno-inverno 1993 presenta con il sostegno del NEWGEN la collezione di debutto del suo marchio (ora sponsor della mostra in questione) intitolata Taxi Driver. Un chiaro omaggio al film di Martin Scorsese del 1976 e una dedica a suo padre, tassista di Londra, diventata leggenda non solo per le silhouette taglienti e il bricolage di materiali insoliti (quali il lattice liquido per rifinire i bordi dei capi) ma anche per il suo rocambolesco smarrimento post-show all’Hotel Ritz. Infatti, fresco dei fragorosi plausi della stampa, il giovane designer impacchetta i look in dei sacchi neri che nasconde dietro ai cassonetti di un nightclub, dove festeggia il suo trionfo fino a tarda notte. Non sorprende che, al mattino, questi fossero spariti, tragi-comicamente destinati alla discarica e mai più ritrovati. Per la prima volta in questa sede i capi di questo (s)fortunato esordio vengono meticolosamente ricreati in una simulazione narrante tramite ricordi, fotogrammi e filmati di Simon Ungless, grande amico di McQueen che ne ha visto la genesi.
L’abito cigno di Björk al Design Museum di Londra
Altro momento emblematico nella rassegna arriva dagli Oscar del 2001, quando la cantante e musicista islandese Björk – candidata con I’ve seen it all per la migliore canzone originale nel film Dancer In The Dark di Lars von Trier – si presenta dichiarando il suo amore per l’artificio al limite del kitsch in un abito che assume le sembianze di cigno. Accompagnato da sei uova di struzzo, decorate dall’artista Matthew Barney e deposte sul red carpet. Si tratta di un look della collezione autunno-inverno 2001/02 che Marjan Pejoski (ex beneficiario del NEWGEN) aveva presentato quell’anno durante la London Fashion Week, indossato in chiusura della sfilata dalla modella Alek Wek. Ironico, decisamente inaspettato, e per questo parecchio criticato all’epoca, l’abito-manifesto camp diventa il più ricordato della cerimonia. Oltre che un tassello appositivo nella liaison iconografica di lunga data tra la figura del cigno e quella femminile. Dalle rappresentazioni dell’antico mito greco di Leda, passando per le mode connesse al celebre balletto Il lago dei cigni musicato da Pëtr Čajkovskij (1877) e per il costume-cigno di Marlene Dietrich del 1935, dichiarata fonte d’ispirazione per la collezione Dior Cruise 2022. Fino a coglierne i riverberi sulla passerella Couture primavera 2014 di Valentino, così come nel videoclip di The Gate (2017) in cui Björk indossa una versione aggiornata dell’abito disegnata da Alessandro Michele.
La discoteca come scuola per gli stilisti inglesi
Lo slancio creativo di questa generazione viene dipinto nella rassegna come frutto della sinergia tra due fattori tipicamente londinesi. Da un lato, l’ethos febbrile delle rinomate scuole d’arte, sottolineato esponendo il vivace lavoro di Louise Gray, le mitologiche visioni di Paolo Carzana o gli specifici ensemble genderfluid di Steven Stokey Daley destinati a Harry Styles nel video di Golden. Per poi approdare al mastodontico abito gonfiabile creato da Harri per Sam Smith in occasione dei BRIT Awards dello scorso anno come ode alle proporzioni non convenzionali, sulla scia della celebre tuta “Tokyo Pop” di Kansai Yamamoto, indossata da David Bowie nel ’73. Dall’altro, la linfa vitale iniettata dalla prorompente club culture cittadina assunta a metafora di libertà espressiva. Da cui si nutrono (o si sono nutriti) nomi come Charles Jeffrey, Gareth Pugh e Nasir Mazhar.
L’altro lato del sistema moda inglese ed internazionale
È innegabile che REBEL: 30 Years of London Fashion appaia sia come un memorandum del fermento giovanile su cui si poggia la moda britannica tout court, sia come una vetrina promozionale per le voci UK che stanno vedendo oggi le luci della ribalta, una tra tutte Grace Wales Bonner. Allo stesso tempo, si percepisce una vena di amarezza nel notare che molti dei marchi supportati e celebrati dal Design Museum abbiano chiuso bottega, fagocitati da un sistema troppo distante dal loro DNA radicale, estremo, squassante, in cui anche il talento più brillante è tenuto necessariamente a fare i conti con l’industria per sopravvivere. Astri come Meadham Kirchoff, Sibling e Christopher Kane ne sono un esempio. Ma d’altra parte, è anche per questo che incubatori quali il NEWGEN restano, ieri come oggi, una potenza enorme, e incoraggiante, nel drammatico tentativo di far coesistere idee rilevanti con business efficienti.
Aurora Mandelli
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