Quello a cui stiamo assistendo è un processo iniziato almeno un secolo fa. In questo inizio 2024, però, è divenuto di un’intensità sin’ora mai raggiunta. Lo hanno reso evidente le fashion week di Milano e Parigi, le più rappresentative in assoluto del complesso sistema che va sotto l’appellativo ormai un po’ troppo generico di “segmento del lusso”. Di cosa si tratta? Si tratta dell’ibridizzazione tra settori che ne rendono irriconoscibili i punti di partenza. La produzione di capi haute couture e prêt-à-porter, il beauty e la pelletteria sotto il cappello dei più celebri brand moda appaiono allineati e integrati in logiche finanziarie che consentono ai grandi gruppi del lusso di divenire protagonisti assoluti non solo nei settori tradizionalmente più consoni ma pure nell’hôtellerie, nell’enogastronomia, sino a sconfinare con esiti inaspettati nel modo delle arti (ma questa è un’altra storia).
Il caso di Balenciaga
La piattaforma Disney+ ha di recente diffuso la serie dedicata alla vicenda di Christóbal Balenciaga. Si tratta di una ricostruzione accurata e più “filologica” rispetto a The New look, prodotto da Apple+ e dedicato a successi di Christian Dior. Le due serie intersecano comunque gli stessi personaggi e la storia delle loro maison parigine, in rinascita nel primo dopoguerra. Nella serie prodotta da Disney+ emerge con chiarezza la riluttanza di Balenciaga nel misurarsi con il prêt-à-porter di cui non condivideva il concetto base: quello della confezione in serie. Il racconto interseca le vicende legate alle difficoltà e al successo incontrati da Christian Dior e Coco Chanel. E ricorda come senza la messa in commercio dei profumi Chanel N° 5 (1921) e Miss Dior (1947) né l’uno né l’altro avrebbero potuto prosperare. Lo stesso Balenciaga prima di chiudere definitivamente la sua maison si cimenterà per volontà dei soci finanziatori nella produzione Paris 10 Avenue George V. Il processo di ibridizzazione che trasforma il couturier da costruttore di abiti per pochi privilegiati a designer di serie infinite non è dunque una novità. Ma la dinamica attuale di questo sviluppo si presta a riflessioni di un qualche interesse: le faremo in riferimento a brand di primo piano e ai gruppi finanziari che stanno alle loro spalle.
La finanza tra fast fashion e haute couture
Impossibile ignorare quel che succede nel girone infernale (per la terribile impronta ecologica delle produzioni) del fast fashion. Qui i leader sono Zara (gruppo spagnolo Inditex quotato alla borsa di Madrid e Milano), H&M (svedese, quotato a Stoccolma), Uniqlo (Fast retailing, giapponese, quotato a Tokyo) mentre si attende entro l’anno l’arrivo della quotazione del cinese Shein a Singapore. Sono loro che attualmente svolgono la funzione un tempo propria del prêt-à-porter: quella di fornire design moda a un prezzo accessibile a un vasto pubblico impossibilitato ad affrontare i prezzi sempre più alti propri del segmento del lusso. È dunque necessario capire cosa sta avvenendo nel segmento del lusso, il più attenzionato per la sua potenza mediatica e il fascino che gli è proprio. Esemplare ad esempio la recente vicenda del colosso americano della cosmetica Estée Lauder (quotato a New York). I Lauder lo scorso novembre hanno acquistato il marchio Tom Ford assegnando la produzione della sua linea di abbigliamento a un partner specializzato nel tessile come Zegna (sede a Biella, quotazione a New York). I Lauder con ogni evidenza hanno giudicato che il business più proficuo fosse la diffusione di prodotti di cosmetici in cui è specialista e non il contrario.
Lo scorso febbraio, fuori calendario, il belga Pieter Mulier ha presentato la sua collezione “estate-autunno” disegnata per il marchio Alaïa (gruppo Richmond, quotato a Zurigo). Abiti così puliti e desiderabili da far dimenticare agli astanti di essere di fronte a un defilée couture. Da tempo i CEO preposti ai vari brand guardano agli show della haute come ad investimenti utili alla notorietà del marchio più che al fatturato, e i designer (quasi tutti) si sono di conseguenza adeguati: molto lo sfarzo, poca la relazione con la realtà.
Le fashion week di Milano e Parigi tra moda e finanza
Lo scorso 3 marzo, Demna Gvasalia, direttore artistico di Balenciaga, ha presentato la sua collezione alla fashion week prêt-à-porter di Parigi. Balenciaga fa parte del portafoglio di Kering (quotato a Parigi e Milano e partecipato da Artèmis) holding della famiglia Pinault. Si è trattato di uno show visionario, che ha confermato Gvasalia come potente interprete della nostra contemporaneità. Sono apparsi senza soluzione di continuità cenni street, athleisure e couture. Poche settimane prima per la haute couture di Parigi, John Galliano per Maison Margela (Gruppo OTB, quotazione attesa nel 2024) ha costruito uno show che ha risollevato le sorti di una fashion week non brillantissima. Gvsalia e Galliano appartengono a generazioni diverse e hanno biografie che non sono in alcun modo sovrapponibili, eppure per nessuno dei due è possibile stabilire una sostanziale differenza quando si occupano di couture o di prêt-à-porter: due creativi del genere non si possono ingabbiare dentro regole strette. Slittamenti evidenti da un versante all’altro sono inevitabili anche per brand come Valentino (in fase di acquisizione avanzata da Kering) o Chanel (non quotato per vocazione!), brand che essendo nati nell’alta moda ne conservano alcuni fondamentali e sono presenti tanto nella fashion week dedicata alla couture che in quelle del prêt-à-porter. Le collezioni Miu Miu di Parigi e Prada (il gruppo è quotato a Hong Kong) di Milano erano a senza dubbio prêt-à-porter, anche se quest’ultima con riferimenti “arty” tutt’altro che basici. Seppur in diverso modo, era “arty” anche la collezione disegnata da J. W. Anderson per Loewe (Kering). Nei primi tre mesi del 2024 si sono avvicendate centinaia di presentazioni, ma solo alcune di particolare significato per la dinamica che stiamo sviscerando. Nella fashion week milanese il belga Glenn Martens ha presentato la collezione che disegna per Diesel (Gruppo OTB) brand che si identifica con l’utilizzo del denim, tessuto dalle profonde radici worker. Lo spirito di Martens (che ha una capacità di lavorazione del tessuto straordinaria) è senza dubbio quello di un couturier, anche quando utilizza la tela azzurra: ne ha dato prova inconfutabile quando nel gennaio del 2022 Jean Paul Gaultier gli ha affidato la presentazione del suo brand per la fashion week parigina dedicata alla haute. E che dire della presentazione di Anthony Vaccarello sempre rispettoso dei codici del brand St. Laurent (Kering), eppure così cool da essere divenuto nelle ultime stagioni un punto di riferimento per tutti? È difficile credere che le velature capaci di vestire da capo a piedi maniquenneche apparivano allo stesso tempo in tutto il loro splendore carnale potranno mai arrivare in una boutique europea o in un dep store americano. Tanto meno in una qualsiasi spazio distributivo a Shanghai o a Seoul. È dunque la dinamica delbrand awareness che concede questi spazi di libertà durante le presentazioni, anche per quelle che ancora si usa definire prêt-à-porter. Un’ultima considerazione: al business del beauty nel segmento del lusso si è affiancato da tempo anche quello degli accessori, in special modo della pelletteria. Facile rilevare come in ognuna delle centinaia di vetrine che i super brand schierano sull’intero pianeta sia sempre (a volte unicamente) la borsa ad essere protagonista.
E tuttavia anche questa dinamica non è a senso unico. Lo rivela il marchio più prestigioso nel settore della pelletteria: Hermés (quotato a Parigi e Francoforte) ha visto i ricavi complessivi del 2023 crescere anche grazie al 22% delle entrate provenienti da profumi e prodotti di bellezza. Di converso, anche il gruppo spagnolo Puig, nato nel settore fragranze, sarebbe pronto a quotarsi in borsa: per farlo ha acquisito partecipazioni di maggioranza in Jean Paul Gaultier, Dries Van Noten tra agli altri, band celebri per le loro collezioni di abbigliamento prima di ogni altra cosa.
Aldo Premoli
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