Non solo “Marie Antoinette”. Influenze e citazioni dalla moda nei film della regista Sofia Coppola
In occasione dell’uscita nelle sale italiane di “Priscilla”, celebriamo la (stilosissima) filmografia della regista più amata dal mondo della moda e non solo
“I’m a high school lover and you’re my favorite flavour”, cantano gli Air sul finale de Il giardino delle vergini suicide (1999). Un verso squisitamente melò, che si dilata in tutta la sua tragica dolcezza attraverso la filmografia di una delle registe più amate di sempre, LadySofia Coppola. Uniformi preppy, rouches zuccherose e un paio di lucide Loubutin: dall’introduzione apologetica del cosiddetto Girl Gaze dentro e fuori lo schermo della cultura mainstream, alla cura quasi maniacale per il dettaglio nella mise en scène, fino all’ironia pastellata della solitudine, il tocco di stile della regista è diventato un vero e proprio culto della chic-cinefilia. Tanto da influenzare non solo la moda contemporanea, ma da imporsi come menabò tout court nello styling della malinconia “Jeune et Jolie”. Oggi se ne ritorna a parlare dopo l’uscita nei cinema italiani di Priscilla, il film che parla della storia tra Elvis Presley e Priscilla Beaulieu, ma dal punto di vista di lei. Distruggendo un mito a colpi di verità (si basa sul memoir Elvis and me) e abiti infiocchettati.
Il legame tra Sofia Coppola e la moda
“Il canone della signora Coppola dimostra che, pur non avendo inventato l’idea della ragazza triste, l’ha elevata allo status di icona, ideando un’eroina inebriante e inerte che conferisce alla tristezza una sorta di fascino ipnotico” scrive Emily Yoshida sul New York Times.Un universo estetico dello spleen placido, a tratti lolitiano, e impeccabilmente vestito. Dove persino la morte ha un che di grazioso e spietato insieme. Ricordiamo che prima di approdare ai deliziosi cortometraggi degli esordi, Coppola passa sotto l’ala di Karl Lagerfeld come stagista da Chanel, intessendo con la Maison un sodalizio che dura tutt’ora con la direzione artistica di Virginie Viard. La quale partecipa alla creazione del guardaroba di Priscilla Beaulieu (interpretata da Cailee Spaeny nel film Priscilla) nel disegnare l’abito nuziale per la scena del matrimonio con il re del rock-n-roll, Elvis Presley. Ma non è tutto, nel flirt reiterato con il fashion business troviamo la cover di Vogue Italia nel dicembre del 1992 scattata da Steven Meisel, la sua firma per il brand Milkfed e le collaborazioni con i big brand più disparati, fino alle T-shirt Uniqlo limited edition. Così, tra una trousse di rossetti panna e fragola, diari segreti, sigarette lasciate a metà e merletti coquette al sapore di disperazione, ripercorriamo insieme alcuni dei suoi film cult attraverso gli abiti che li hanno resi tali.
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Il giardino delle vergini suicide (1999)
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Lost in Translation (2003)
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Marie Antoinette (2006)
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The Bling Ring (2013)
Il giardino delle vergini suicide vede come protagonista una giovane Kirsten Dunst nei panni di Lux, una delle cinque sorelle Lisbon, relegate tra le mura di casa dai genitori iper-protettivi, sullo sfondo della quieta e iper-borghese periferia di Detroit. Attraverso una lente intima e voyeuristica, l’incantevole strazio dell’adolescenza viene esasperato nel dissacrante binomio purezza/erotismo, tradotto tanto dall’immagine di un crocifisso coperto da un reggiseno rosa sul muro della cameretta, quanto dai capi indossati dalle jeunes filles. Dagli ensemble collegiali composti da gonnelline plissettate, camicie bianche e gilet in maglia, ricalcando i codici estetici di Miu Miu, agli abitini floreali e le sottovesti di pizzi e volant che strizzano l’occhio all’abito bianco di Emily Dikinson come per solidarietà. Fino alle mutande ricamate con il nome di Trip, crush della vita inevitabilmente deludente.
Oscar alla miglior sceneggiatura, nel lungometraggio Lost in Translation, così come nei successivi Somewhere (2010) e On the Rocks (2020), il fattore-moda mantiene un low-profile nell’atmosfera soffusa di una Tokyo straniante. Dietro le impassibili vetrate del Park Hyatt, tra un letto, un ascensore e un karaoke notturno, il rapporto tra Charlotte e Bob, aka una 17enne Scarlett Johansson e Bill Murray in “crisi di metta età”, è l’apoteosi del non-detto, teso sul filo appannato della tenerezza. Se da un lato l’accurato mélange di outfit effortlesstargati A.P.C., Helmut Lang, Marc Jacobs e Agnès B, ad opera della costumista Nancy Steiner, ammicca in modo “molto narcisistico” direttamente allo stile personale di Coppola con cardigan e pantaloni comfy-chic, come ritroveremo all’ennesima potenza nella Laura di Rashida Jones. Dall’altro, secondo Suzanne Ferriss, dimostra l’intercedere della liaison tra i due lupi solitari, creando un parallelismo tra vestaglie, pigiami e accappatoi, che scandiscono una reciprocità sempre più evidente. Impossibile poi non menzionare le mutande rosa in apertura al film, reference all’opera del pittore John Kacere, così come la parrucca a caschetto che precorre quella altrettanto blasonata di Natalie Portman in Closer (2004).
Marie Antoinette o “The teen Queen who rocked Versailles”, citando l’iconico shooting di Vogue America scattato da Annie Liebovitz e dedicato al film. Qui, la parabola della regina più fashion victim della storia, interpretata da Dunst, viene raccontata a partire dal suo matrimonio con Luigi XVI fino alla dipartita dalla Reggia di Versailles, dove il fulcro non è tanto la trama quanto il profondo senso di vuoto misto alle palpitazioni che la abitano. Emblematica in questo senso è la sequenza che la ritrae sdraiata a letto sullo sfondo di What Ever Happened? degli Strokes, ferita, disorienta e sognante come la Marie di John Galliano nell’iconica collezione Masquerade and Bondage, Dior Couture autunno inverno 2000. Il tutto imbevuto nella palette cromatica di una confezione di macaron Ladurée, che una volta arrivata nelle mani della celeberrima costumista Milena Canonero le valse il suo quarto Oscar. Troviamo le silhouettes del XVIII secolo, rilette con materiali come il tulle e l’organza, e abbinate a un caleidoscopio delirante di scarpe Manolo Blahnik, tra le quali s’infiltrano un paio di Converse All Star blu, le parrucche di Rocchetti & Rocchetti, le gemme di Fred Leighton e, soprattutto, fiocchi su fiocchi. Che oggi ritroviamo letteralmente ovunque, tra gli orecchini virali di Simone Rochas e la corte di Vivetta per l’autunno inverno 2024-25.
Concludiamo con il suo film più mainstream e movimentato, The Bling Ring, nel quale l’attenzione per la moda diventa il pretesto per portare in scena una ribellione adolescenziale risucchiata dal totem dell’apparenza e dall’ossessione per la celebrity culture. Ispirato a una inchiesta di Vanity Fair America di Nancy Jo Sales dal titolo I colpevoli portano Louboutin, The bling ring è un vero e proprio bagno sensoriale nel glamour, una sfilata-rapina hollywoodiana animata dalla crew di giovani egocentrici losangelini (Emma Watson e Katie Chang in prima linea) tra un Adderall mattutino, clubbing, cocaina e frappuccini Starbucks, vestiti come fossero usciti da un episodio qualsiasi di Gossip Girl. O meglio, dalla cabina armadio di Paris Hilton. Pellicce, mini-abiti, paillettes, skinny jeans, tute Juicy Couture incastrate negli Ugg, Birkin e maxi occhiali da sole vengono abilmente mixati dalla costumista Stacey Battat per tratteggiare il simulacro di uno star system siliconato, diventato il “sogno americano”. Come, del resto, Demna Gvasalia altro non fa che sottoscrivere con la sfilata Balenciaga Pre-fall 2024. Sinistro e maledettamente seducente.
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Il giardino delle vergini suicide (1999)
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Lost in Translation (2003)
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Marie Antoinette (2006)
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The Bling Ring (2013)
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Aurora Mandelli
Originaria di Vaprio D’Adda, si sposta a Milano e Bordeaux per perseguire gli studi. Da sempre amante della moda in tutte le sue forme, coltiva la passione per l’arte, il cinema e il teatro. Attualmente fashion stylist e redattrice freelance…