Yohji Yamamoto (Tokyo, 1943) è uno stilista giapponese che dal 1970, quindi dagli inizi della sua carriera in anonimato, riflette sul corpo attraverso la struttura degli abiti. Questi vengono trattati e pensati come sculture multiformi che nel corso delle stagioni passano dalla liquidità alla complessità, servendosi di pochi colori. In primis il nero, seguito da sprazzi di rosso bilanciati dal grigio e da più gradazioni di bianco. Gli stessi sono i protagonisti di una mostra a Milano, nella Galleria di 10 Corso Como, visitabile dal 16 maggio al 31 luglio 2024 e curata da Alessio de’Navasques, docente di Fashion Archives presso la Sapienza Università di Roma, a capo di un programma dedicato alla cultura della moda promosso dallo stesso famoso concept store recentemente rinnovato.
La mostra “Yohji Yamamoto. Letter to the future” a Milano
La retrospettiva Yohji Yamamoto. Letter to the future arriva dopo 13 anni dall’ultima dedicata al fashion designer da parte Victoria & Albert Museum di Londra. È un evento piuttosto raro, che coglie l’occasione per esporre 25 capi di archivio, provenienti dalla Collezione Yohji Yamamoto, di epoche e stagioni diverse, a partire dal 1986 fino al 2024. Ne emerge un rapporto ambivalente e poetico con il tempo, in un flusso asincrono di forme e asimmetrie materiali. Questo è tangibile tutt’oggi, dopo più di 50 anni di carriera, nelle collezioni di Yamamoto. Infatti, de’Navasques, che ha allestito ogni abito senza artifici scenografici e su busti sartoriali simili a quelli di un atelier, ha ottenuto una perfetta mescolanza alternando capi di ieri ad altri di oggi. La protagonista rimane sempre e solo una: l’abilità radicale di smontare e rimontare archetipi. Invece, il personaggio secondario nella visione del creativo giapponese è il colore.
Gli abiti della mostra “Yohji Yamamoto. Letter to the future” a Milano
“Il messaggio di Yohji Yamamoto è quello del corpo che agisce sull’abito, attraverso le sue forme imperfette e accoglienti, che racchiudono ogni tipo di corpo e di spirito – dice il curatore de’Navasques – assistiamo ad un momento storico in cui, proprio come accadeva negli anni del suo esordio in Europa, la fisicità sembra essersi liberata da sovrastrutture e stereotipi di genere, eppure siamo sovraesposti, continuamente giudicati, come accade sui social media”. Da qui parte l’idea di una retrospettiva che sembra anche rappresentare un processo di vestizione e svestizione, evoluzione e involuzione. Lo testimoniano l’output del genio creativo di Yamamoto, ovvero la faux-cul del cappotto in seta rossa della collezione Inverno 1986/87, un costume ottocentesco che diventa un ibrido con una giacca sfiancata, i robe manteau tridimensionali nell’Inverno 2023/24 e un abito al centro dello show performance della Primavera 1999, dove le modelle si liberavano di crinoline, veli e strati di tessuto rivelando l’essenza della forma. Così, l’abito nella condizione di oggetto ha la meglio sulla monumentalità spesso celebrata nelle mostre di moda. È una lettera al futuro, citando il titolo, o meglio al “domani” riportando vecchie parole dello stilista, senza dimenticarsi del presente e del passato.
Giulio Solfrizzi
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati