Teoria e prassi di tutte le fashion week del mondo
Parigi, New York, Milano, Londra. La traiettoria delle fashion week però si è allargata. Ci hanno provato infatti in Europa Amsterdam, Anversa, Barcellona, Berlino, Copenhagen e Stoccolma; ma altre città hanno tentato di rivendicare un ruolo importante
Le fashion week del secondo semestre 2024 sono ripartite. Come sempre Milano e Parigi a giugno, mentre a settembre si aggiungono Londra e New York: sono queste le “città della moda”, considerate da almeno mezzo secolo come big four. Qui le settimane della moda costituiscono un evento istituzionale di grande importanza arricchitosi negli anni di manifestazioni collaterali prodotte da ogni genere di ICC e partecipate da celebrity internazionali. E tuttavia la velocità degli accadimenti sta rendendo meno stabili le loro posizioni. Per città della moda si intendono infatti centri dove esistono fashion week dotate di copertura mediatica mondiale, luoghi che possiedono inoltre connotati simbolici riconosciuti e intense pratiche tanto di produzione che di consumo. Intorno a questo modello teorico sono apparsi negli scorsi decenni piani strategici dei governi che hanno provato a favorirne il posizionamento come destinazioni ideali per imprese, capitale umano, investimenti immobiliari e turismo.
Quali sono le città della moda
A partire dal 1943 con la prima fashion week ufficialmente organizzata a New York (Milano debutta nel ’58, Parigi nel ’73, Londra nell’84) le big four si sono presentate come un’oligarchia senza alternative possibili. Nel nuovo millennio, sono però emerse città della moda di secondo livello, dando la stura a una inedita eterogeneità. Una conseguenza della frattura geografica tra luoghi di produzione e luoghi di progettazione. La globalizzazione dei commerci insieme alla sempre più intensa applicazione di IT ha permesso la crescita della manifattura in paesi dotati di mano d’opera a basso costo favorendo lo sviluppo della fast fashion e dei conseguenti giganteschi problemi di sostenibilità che sono propri di questo settore. Gran parte della produzione tessile si è spostata dall’Europa e dal Nord America in Cina, Vietnam, Bangladesh, Marocco, Turchia, Sud America ed Europa dell’Est, mentre i marchi della fast fashion sono emersi con una forza deflagrante prima in Europa (Inditex. H&M) e a seguire (perché al peggio non c’è mai fine) in Giappone (Uniqlo) e di recente, surclassando tutti, in Cina (Shein). La funzione di quella che un tempo veniva definita “moda pronta” (il prêt-à-porter appunto) è stata via via assorbita proprio da questi invadenti attori, mentre la narrazione messa in campo dai brand considerati leader negli anni Ottanta e Novanta li ha profilati come creatori di “lusso”, vocabolo dai confini incerti ma di applicazione divenuta universale.
Le big four della moda
Facciamo un passo indietro. La traiettoria delle big four è stata sin dall’inizio specifica ma diversa per ognuna di loro. Parigi si è identificata con l’alta moda: e difatti è depositaria dell’unica fashion week haute couture degna del nome; Milano si è distinta per un prêt-à-porter ad “alta vestibilità”; New York per l’abbigliamento sportivo e Londra per esiti più creativi poco o niente legati alle ragioni del commercio. Delle capitali europee quest’ultima è stata la prima a sperimentare un dirompente declino manifatturiero e ha provato a reggere gettandosi sull’economia simbolica. Ovunque in Occidente le attività di produzione simbolica hanno finito per prevalere su quelle manifatturiere. Ma prima il maldetto virus prima e poi la Brexit hanno inferto colpi dai quali Londra sembra voglia ora riprendersi celebrando dal 7 al giugno il suo 40ennale con un’inedita edizione dedicata esclusivamente all’abbigliamento maschile UK. A New York, la moda di fascia alta è stata storicamente associata al Garment District quella di maggiore diffusione allo sportswear. Come per Londra anche a New York, tuttavia, la fashion week appare indebolita: gli appuntamenti annuali sono due e non quattro e i partecipanti dopo covid sempre minori in numero e prestigio. L’economia americana, ancora la più potete del mondo, al di fuori dall’esprimere marchi sportivi leader come Nike non pare in grado (o interessata) a coagulare gruppi moda capaci di competere con giganti europei come LVMH, Kering o Richmond. La posizione di Parigi, come detto, è associata all’emergere dell’haute couture nel XIX secolo e pure Parigi ha subito un forte processo di disarticolazione tra economia simbolica e produzione manifatturiera: ma si è risollevata come centro di business capace di potenti strategie di branding sino a riassumere nuovamente una posizione dominante. Milano tra le big four è l’unica ad aver conservato un reale collegamento la con la produzione nazionale, ancora oggi ritenuta di assoluta eccellenza. Va però sottolineato che di questa particolarità “italiana” oggi usufruiscono in maniera massiccia tanto brand solo nominalmente italiani (Bottega Veneta, Brioni, Fendi, Givenchy, Gucci, Loro Piana, Valentino, Versace…) quanto di origini e proprietà straniera (Balenciaga, Chanel, Dior, St. Laurent, Burberry…). Che proprietà e produzione simbolica siano di origine parigina, londinese o americana le capacità dei distretti italiani hanno cominciato addirittura a divenire obiettivo di acquisizioni attraverso brillanti operazioni finanziarie (LVMH con le concerie Masoni e Nuti Ivo a Santa Croce sull’Arno ad esempio).
Copenhagen e Shanghai: fashion week nel mondo
Un commento va dedicato ai cosiddetti centri di “secondo livello”. Nel nuovo millennio le fashion week sul pianeta si sono moltiplicate. Tanto con l’intento di sostenere designer e sviluppo di reti locali, quanto per posizionare alcune città all’interno delle geografie simboliche della moda. Ci hanno provato in Europa Amsterdam, Anversa, Barcellona, Berlino, Copenhagen e Stoccolma; ma altre città hanno tentato di rivendicare un ruolo importante: è accaduto per Istanbul, Lagos, Melbourne, Nairobi, Rio de Janeiro, San Paolo, Mumbai, Seul, Tokyo e Toronto. Tutte in ogni caso hanno ottenuto risultati al di sotto delle aspettative dei loro progettisti. Persino Roma vittima di logiche autoreferenziali ha dovuto rinunciare. Un po’ meglio è andata alla Copenhagen Fashion Week che ha fatto della sostenibilità il fulcro del suo profilo. Dal gennaio 2020 ha introdotto un ambizioso Sustainability Action Plan triennale, che prevede un sistema di stretti requisiti richiesti ai marchi che desiderano far parte del programma ufficiale.
Il caso Shanghai
Un caso a sé è costituto dalla fashion week di Shanghai costruita venti anni fa su indicazione politica: vanta un seguito di streaming senza possibili confronti seppure il calcolo preciso del suo impatto sia impossibile a causa della politica restrittiva di accesso ai dati imposta dal governo. Shanghai rappresenta un ambitissimo centro di consumo e brand in visita con show organizzati autonomamente ce ne sono stati e ce ne sono di continuo (uno tra tutti il Pradasphere del dicembre 2023): nessuno di loro ha però mai partecipato alla fashion week governativa. Degna di ogni considerazione è poi la dinamica emersa in tutta evidenza lo scorso mese, ma a ben guardare in corso da almeno un decennio. A poca distanza l’uno dall’altro Christian Dior, Balenciaga, Chanel, Hermès e Louis Vuitton hanno trasformato le presentazioni della collezione crociera in un evento di diplomazia culturale. Si tratta di marchi leader provenienti da Parigi, la città della moda leader in assoluto. Eppure, Christian Dior ha scelto come location il castello di Drummond a Edimburgo in Scozia; Chanel una terrazza a Marsiglia, Hermès il Pier 36 a New York, Louis Vuitton il Parc Güell di Barcellona e Balenciaga il Pudong International Airport di Shanghai. Eventi programmati fuori da qualsiasi calendario istituzionale, tenuti in tre diversi continenti, utili a posizionare questi brand come vere e proprie repubbliche autonome, transnazionali e dotate di un pil da miliardi di euro.
Aldo Premoli
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