Con la cultura non si mangia, si ripete sovente con malignità, ma è vero anche il contrario e cioè che, troppo spesso, chi fa cultura sembra palesemente disinteressarsi alle cose materiali di cui si lamenta poi la scarsità.
Nello specifico dell’arte contemporanea, poi, l’annosa questione di un settore perennemente in crisi e, probabilmente, ineluttabilmente non autosufficiente. La diffusa condizione degli artisti italiani che, malgrado i diversi programmi di promozione e sostegno già attivati dal Ministero della Cultura, stentano a essere riconosciuti fuori dai confini, e di un mercato, nazionale, che preferisce acquisire opere di provenienza estera in quanto evidentemente rappresentative di forme di investimento più solide per i collezionisti privati. Scelte spesso corroborate dalle strategie espositive di musei e istituzioni. Per non parlare, della pletora di fiere d’arte, case d’asta e dei costi promozionali richiesti dall’editoria specializzata che rischiano di depauperare quel po’ di risorse ancora in cassa di tanti estenuati mercanti e gallerie!
Sinceri? Penso che il “sistema” dell’arte possa affrontare e provare a risolvere le sue continue crisi solo in seguito a un serio sforzo di osservazione al di fuori dal suo “centro”. Le parti in causa, i produttori (ivi incluse le istituzioni, le accademie, i musei, ecc.), i mercanti, i collezionisti che mirano a creare valore dai loro investimenti, sono troppo vicine e implicate tra di esse: l’ambito economico è troppo ristretto e le sacche di opacità nelle scelte risultano eccedere in dismisura rispetto alle dimensioni del portato.
Il modello finanziario ha invaso il sistema dell’arte
Come primo esercizio di “scentramento” suggerirei di considerare come, ad un certo punto della storia più recente, la dimensione economica delle due capitali industriali, Milano e Torino, si sia drammaticamente trasformata dismettendo le infrastrutture manifatturiere a favore dei settori maggiormente speculativi della finanza e dei servizi. Anche la produzione artistica ne ha risentito. La sua dimensione artigianale, le espressioni di indipendenza e originalità capaci di generare valore a fronte di investimenti relativamente circoscritti, ha sempre più sofferto irreggimentandosi a favore di atteggiamenti più consoni ai rapporti industriali, specie se di carattere internazionale. A parafrasi del modello finanziario, insomma, hanno prevalso modelli estetici edonisti ed eccessivamente speculativi.
Forse è giunto il momento di recuperare il rapporto con quelle realtà manifatturiere del Paese, nel frattempo decentralizzate dalle tradizionali capitali industriali?
Proviamo a spostare ancora di più il baricentro dell’osservazione, in tutt’altro campo, quello dell’industria delle tecnologie dell’informazione, con atipiche coordinate geografiche, quelle della città di Catania.
Il caso di STMicroelectronics a Catania
La storia a cui voglio fare accenno è quella dell’insediamento manifatturiero della multinazionale italo-francese STMicroelectronics, il più grande stabilimento di semiconduttori in Italia. L’impianto è stato di recente oggetto di un piano di investimento governativo di 5 miliardi di euro che prevede il rafforzamento di un bacino produttivo il quale, insieme alla produzione di pannelli fotovoltaici di Enel Green Power e all’indotto di piccole e medie realtà industriali esistenti, interessa diverse migliaia, forse decine di migliaia, di unità lavorative (prevalentemente ingegneri e tecnici) altamente specializzate.
Questa realtà industriale ad alto tasso tecnologico non è frutto di una delle tante politiche di perequazione della storia dell’Italia repubblicana quanto la concretizzazione di un vero e proprio asset, possibile solo grazie all’indotto di personale qualificato, fornito dall’università locale e, soprattutto, dalla proficua relazione dinamica con un vero e proprio dipartimento di Ricerca e Sviluppo (R&D, in inglese) connesso anche se indipendente allo stesso impianto manufatturiero, l’Istituto per la microelettronica e microsistemi del CNR. La presenza di questo, a sua volta, emanazione diretta di una delle principali infrastrutture di ricerca della fisica nucleare in Italia, insieme a Frascati e al Gran Sasso, i Laboratori Nazionali del Sud dell’INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare), insediatisi a Catania alla fine degli Anni Settanta. Ciò che succede, in pratica, è che i ricercatori del CNR forniscono costanti innovazioni e brevetti tecnologici alla parte industriale e da questa, in cambio ricevono costosissimi componenti e strumenti sempre all’avanguardia per aggiornare le loro ricerche.
Il legame tra ricerca, sviluppo e arte contemporanea
Ma cosa c’entrano ricerca e sviluppo industriale con l’arte contemporanea? In un’intervista condotta nei primi Anni Duemila con Lawrence Weiner, provai a sottoporre l’artista americano a un esercizio di comparazione tra il video girato da Jean-Baptiste Mondino per il brano Don’t tell me di Madonna e il lavoro dell’artista “appropriazionista” Richard Prince. Incalzato sulla questione di come la cultura popolare potesse fare meglio e con maggiore pervasività di tante sperimentazioni artistiche, mi rispose sferzante: “You certanly can’t dance on my work but you may learn how to dance watching it!” (Magari col mio lavoro non ci potrai ballare ma certamente potrai imparare a farlo dopo averlo guardato).
In questo modo Weiner rendeva evidente il fatto che l’arte contemporanea a New York, l’intero sistema di artisti, collezionisti, media e istituzioni, funzionasse come un enorme settore di R&D per l’intera industria creativa della città (arte, moda, TV, design, musica pop…).
Questa intrinseca relazione tra segmenti creativi delle ICC è stata ampiamente metabolizzata dai grandi Gruppi del lusso internazionali che sappiamo dotati di fondazioni che spesso sono vere e proprie istituzioni culturali in competizione con i più blasonati musei.
Il caso della Fondazione MAST a Bologna
Se l’analogia è immediata per quanto riguarda il settore delle ICC, il passaggio ad altri ambiti manifatturieri risulta probabilmente meno evidente. Eppure, già qualche segnale da particolari realtà italiane si comincia a percepire. È il caso, ad esempio, della Fondazione MAST (Manifattura di arti, sperimentazione e tecnologia) promotrice, tra l’altro, della Biennale di fotografia dell’industria e del lavoro a Bologna. Non sorprende che tale realtà emerga in un contesto come quello emiliano dotato di una rete ben dimensionata nella gestione dei beni culturali (vedi il MAMbo) in un territorio che, per quanto riguarda il manifatturiero, non ha niente da invidiare ai competitor padano-occidentali.
Il sistema dell’arte deve allargare i suoi orizzonti
Sono pochi esempi, non ancora sufficienti per stabilizzare un sistema economico a supporto delle arti visive contemporanee in Italia ma, forse, la questione non risiede tanto nelle linee strategiche di ciascuna realtà che, ricordiamo, è frutto dell’iniziativa privata e pertanto persegue legittimi interessi particolari, quanto nella capacità del “sistema” a saper dialogare con queste e a instaurare un virtuoso rapporto dinamico capace di avvantaggiare tutte le parti: quanti artisti e curatori, mercanti, docenti delle accademie, sono capaci, infatti, di saper conciliare le consuetudini e i “trend” del mondo dell’arte con le molteplici istanze, anche sociali e politiche, espresse da un mondo del lavoro in perenne e impetuosa trasformazione?
Federico Baronello
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