“Nessuno ha davvero bisogno dell’alta moda”, così Demna Gvasalia, alla guida del brand Balenciaga dal 2015 ha commentato il suo show per la presentazione della collezione haute couture a/i 2024-5. L’atto stesso del vestirsi – ha aggiunto – è essenzialmente “una performance”. E difatti l’ultimo ad uscire in passerella è stato un abito nato nel backstage: che non esisteva un attimo prima e non è esistito poi; una nuvola nera di tessuto sintetico scolpita sul corpo della modella. Gvasalia è per sua natura un “estremista”. Ma a Parigi questa volta non è stato il solo a sostenere questa posizione come questa. Iris Van Herpen, ha appeso le sue modelle al centro di enormi tele ricoperte di gesso accanto ad altre opere d’arte, trasformandole in bassorilievi di tessuto.
La performance nella moda
Per Viktor&Rolf, le performance non sono una novità e il loro show è un apparso una ricercata assurdità virtuosistica, dove la geometria euclidea si incontra con le marionette del Triadic Ballet di Oskar Schlemmer. Commento: “Il significato? Ognuno lo costruisca come desidera”. La sfilata, (“show” in lingua inglese per l’appunto) da tempo ha perso la funzione di presentazione di capi da prenotare per la successiva vendita. La profusione di mezzi messi a disposizione per queste presentazioni, sono però giustificabili come investimento sulla “reputazione” del marchio che le mette in atto: e certo per i brand più potenti le visualizzazioni in streaming si contano a milioni. Non è certo un mistero che le singole maison sostengano i loro fatturati principalmente con la vendita di accessori e più di recente di profumi e beauty care, questi ultimi diffusi a un prezzo ancora accessibile per consistenti fasce di consumatori.
L’ibridizzazione tra prodotti nel nostro evo transestetico è totale: abito, accessorio, beauty, hotellerie, attrezzistica sportiva, arte, presto cinema, televisione e high tech sono prodotti ritenuti di pare valore dai Gruppi del lusso.
Moda e femminismo
L’approccio a questi segmenti è sempre più integrato, simili sono le modalità di pensiero e persino i vocaboli in uso per descrivere il tutto. L’ultimo show couture di Dior a Parigi è stato un omaggio alla XXXIII Olimpiade in arrivo. Maria grazia Chiuri fedele alla sua lente “femminista” ha reso omaggio ad Alice Milliat, paladina dei diritti femminili alle Olimpiadi del 1928. Pochi giorni prima Pharell Williams alla guida di Louis Vuitton aveva dichiarato che le Olimpiadi sono state la sua prima fonte di ispirazione per la costruzione della sua collezione uomo p/e 2025. Scelta resa ancor più evidente dalla location: il parco dell’ UNESCO con bandiere di ogni nazione issate dietro a un globo di 15 metri di diametro. Non è un caso. LVMH che ha in portafoglio tanto Vuitton che Dior si presenterà il prossimo 26 luglio come main sponsor delle XXXIII Olimpiadi e paraolimpiadi di Parigi. Nessun grande evento in vista per l’Italia nel 2024. Così a Milano nello spazio del teatro interno alla Fondazione Prada per la presentazione della collezione uomo p/e 2025 è apparsa una casetta bianca. Da lì, un sentiero recintato bianco scendeva verso un pubblico. Nella casetta una luce pulsante e nell’aria i ritmi perturbanti di Insomnia dei Faithless. Che Prada metta in scena una presentazione immersiva all’interno della sua Fondazione non stupisce: il brand ha fatto di questo genere di operazioni (vedi l’esposizione di Christopher Büchel attualmente in corso a Venezia) un continuum.
Arte contemporanea e moda
Così come non sorprende la complessa installazione disegnata da Matthew Wiliamson per Loewe. Il brand fa parte del portafoglio di Kering che a sua volta fa parte della holding Artémis di cui è parte pure la formidabile Collection Pinault, suprema Fondazione dedicata al contemporaneo. Anderson ha dunque allestito una sorta di white cube per una collettiva che prevedeva, a terra una copia di Against Interpretation di Susan Sontag proprio accanto a un cavalletto di Carlo Scarpa disposto a sostenere la foto di Peter Hujar di una calzatura femminile che Anderson ha detto essere stato un punto di partenza per questa collezione. Pià in là una seduta di Charles Rennie Mackintosh. A terra anche piccole sculture della serie Pied Piper di Paul Thek e un sorprendente attaccapanni in rovere e ferro attorno al quale stava adagiato un boa di piume. Ancora a Milano da Dior, la collezione uomo disegnata da Kim Jones è stata fatta sfilare a zig zag tra cinque grandi sculture raffigurati enormi gatti e gatte costruite dall’artista Hylton Nel per l’occasione. Moda e Arte anche qui “pensate” come un tutt’uno per un brand che appartiene a un Gruppo che in quanto a impegno su quest’ultimo versante, specialmente dopo l’apertura dello spazio Louis Vuitton disegnato da Frank Gehry, non si ritiene secondo a nessuno.
Ibridazioni internazionali: Parigi, Milano, New York
Sono questi solo alcuni tra gli esempi più recenti di una dinamica che si intensifica stagione dopo stagione. L’ibridazione tra segmenti diversi delle ICC (Industrie Creative e Culturali) di cui la Moda fa parte a pieno titolo, non è solo un aspetto di superfice della nostra contemporaneità. È una necessita dettata dall’economia. Quattromila addetti in cassa integrazione a partire dallo scorso febbraio nel distretto di Scandicci celebre per la manifattura di alta qualità di prodotti pellettieri; cinquemila (ma per questo dato non ci sono certezze) in quello comasco della seta. Sono solo due esempi di quel che sta accadendo alla catena produttiva corta italiana, quella a cui si affidando per i loro migliori prodotti i brand del cosiddetto lusso. Gli ordini in questi prime sei mesi dell’anno non solo hanno rallentato, si sono proprio inchiodati. Magazzini pieni e negozi “in allestimento” un po’ dovunque. Servisse un ulteriore riscontro questo arriva dalle quotazioni dei Gruppi (o singoli brand): tutti, nessuno escluso, in calo vistoso nei listini borsistici di New York, Milano, Parigi, Düsseldorf o Ginevra. Che si tratti di analisti finanziari o operatori diretti, l’opinione è unica: da qui alla fine dell’anno nessuna schiarita in vista. È certo colpa del mercato cinese (da anni il più lucroso), che si è bloccato tanto materialmente che psicologicamente. Materialmente perché l’impetuosa crescita del Pil cinese si è fermata e la disoccupazione urbana giovanile ha raggiunto numeri a due cifre; psicologicamente perché le autorità, vista la situazione, sconsigliano ai “ricchi” atteggiamenti vistosi poco consoni alla situazione generale. E in Cina i consigli governativi vengono presi alla lettera. Colpa anche dell’incertezza politica proveniente dalle elezioni presidenziali americane. Colpa di certo del sempre più oscuro orizzonte sui fronti di guerre. Colpa del dimagrimento numerico di quella che un tempo veniva definito “ceto medio”. Non aiutano notizie come quelle di aperture di procedure giudiziarie di verifica per metodi produttivi illeciti all’interno del nostro stesso paese.
Ma forse più di ogni altra cosa va ascoltato il rumore di fondo che accompagna questa situazione. È la voce che proviene da un nuovo tipo di consumatore, sempre meno identificabile per fascia di età, ma sempre più informato sui giganteschi problemi di sostenibilità e giustizia sociale legati alle produzioni. Non solo del tessile abbigliamento certo, ma dai quali il tessile abbigliamento di certo non è esente.
Aldo Premoli
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