Né rose né fiori. La crisi della moda sta nei numeri
Poche le speranze per una veloce ripresa del tessile, al momento nel mezzo di una tempesta che coinvolge anche i grandi marchi, con flessioni dalle percentuali a doppia cifra. Ecco chi affonda, chi galleggia e chi procede col vento in poppa
Bisognerà pur dirlo. L’industria del lusso sta attraversando un periodo molto difficile e nessuno si aspetta di intravedere a breve la fine del ciclo negativo in cui versa dal secondo semestre del 2023. Negative anche le prospettive a breve per il secondo semestre di questo 2024. Quanto al 2025 gli analisti affermano che “certamente la ripresa avrà il suo corso” che “l’atterraggio sarà morbido”. Tradotto: nessuna certezza su quel che accadrà. Svanita l’euforia post-Covid, con scenari di guerra moltiplicati, con una classe media occidentale sotto pressione, con tassi di interesse sempre elevati, è arrivata la caduta di interesse della zona Asia-Pacifico, in particolare dei consumatori cinesi: qui la crescita ha cominciato a rallentare vistosamente, le vendite al dettaglio sono scese ai minimi degli ultimi diciotto mesi e come risposta le imprese hanno tagliato i prezzi, tutti i prezzi, che si tratti di auto, prodotti alimentari o tessili. Poi lo scorso venerdì 2 agosto un crollo a Wall Street che il lunedì seguente ha travolto prima la borsa giapponese (il calo più sostenuto in un singolo giorno dal 1987) e poche ore dopo tutte le altre.
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La crisi del tessile in numeri
Tutti i dati che riportiamo qui di seguito si riferiscono al primo semestre 2024, quello terminato al 30 giugno scorso. La grande maggioranza dei report dei Gruppi che hanno come loro centro i brand moda è negativa, con qualche fortunata eccezione. LVMH, il più grande conglomerato del lusso al mondo dopo anni di crescita a due cifre. Le vendite di moda e pelletteria LVMH sono cresciute dell’1% nel secondo trimestre. Louis Vuittonnonostante il supporto di show megagalattici e spazi espositivi in continua crescita non ha brillato. Altrettanto è accaduto per Christian Dior. Stesso risultato per Richemont: vendite aumentate dell’1% nel secondo trimestre grazie alla tenuta di Cartier, il marchio più redditizio della conglomerata svizzera. Per Kering la situazione è peggiore. Il brand più celebre, Gucci, scivolato del 19%; Saint Laurent è sceso del 9%, Balenciaga e Alexander McQueen del 5%. Solo Bottega Veneta è cresciuta del 4% insieme a Kering Eyewear del 5%. Per Burberry le vendite al dettaglio sono crollate del 20% anno su anno e Hugo Boss ha registrato vendite in calo dell’1% a tassi di cambio costanti. Una straordinaria eccezione è costituita da Hermès, che ha registrato una crescita del 13,3% nel secondo trimestre guidata dall’Europa e dal Giappone mentre l’Asia-Pacifico è aumentata del 5,5%. Solida performance anche negli Stati Uniti, con vendite in aumento del 13%. Nello specifico prêt-à-porter e accessori sono aumentati del 15,1%, pelletteria e selleria del 17,9%, altri settori tra cui gioielli e prodotti per la casa del 13% e profumi e bellezza del 5,6%. Gli orologi sono scesi del 4,9%, seta e tessuti del 5,6
Come se la cava la moda italiana?
Anche peggio ha fatto Ferragamo con utili netti precipitati del 73,2%, mentre l’aggiornamento sul fatturato diretto di Armani è un calo del 2,6% rispetto al 2022. Altro segnale negativo arriva del delisting borsistico del 7 giugno scorso del Gruppo Tod’s mentre OTB Group continua a posticipare l’annunciata quotazione in borsa. Hanno retto bene invece Cucinelli, Moncler, Prada e Zegna. La semestrale di Cucinelli ha fatto registrare un più 14%. Per Moncler Group ha visto le vendite aumentare dell’8% nel primo semestre. Zegna (quotato a New York) ha fatto registrare una crescita superiore al 6%. Il Gruppo Prada (quotato a Hong Kong) registra una crescita del 17% nel primo semestre, con le vendite di Miu Miu aumentate del 93%. Una performance del genere merita un approfondimento “geografico”: le Americhe sono cresciute del 7%, l’Europa è cresciuta del 18% sommando spesa interna e spesa turistica. Il Medio Oriente ha raggiunto una crescita del 20%. Mentre la Cina non ha registrato miglioramenti, il Giappone ha visto una crescita delle vendite del 55%. La performance giapponese non è una prerogativa di Prada, i viaggiatori cinesi con forte capacità di spesa stanno sfruttando a loro vantaggio l’attuale debolezza dello yen.
La situazione dei distretti produttivi del tessile
Troppo spesso l’analisi sul complesso momento che sta attraversando il mondo della moda generalmente si ferma qui. Ma si tratta di un’analisi gravemente incompleta se non si tiene conto delle ricadute che le performance dei brand hanno su un sistema produttivo che non è di proprietà o appannaggio esclusivo di un marchio piuttosto che di un altro. Di recente sono balzati alla ribalta i probabili cambi di regia di Sarah Burtone John Galliano, le uscite di scena di Pier Paolo Piccioli o Peter Hawkings, l’arrivo di Alessandro Michele da Valentino. Meno glamour ma molto reali sono invece le miglia di ore di cassa integrazione in atto nei distretti produttivi italiani quelli che un tempo sono stati il motore del successo mondiale del Made in Italy. Sono gli stessi distretti, oggi ridotti in numero di appartenenti, che assicurano attualmente la produzione di alta gamma ai più celebri marchi del lusso francese che da anni domina incontrastato il panorama della moda internazionale. Quello della seta a Como, quello della lavorazione delle pelli a Santa Croce sull’Arno, quello tessile di Prato, eccetera. Qui reperire numeri precisi al momento è impossibile vista la frammentazione produttiva, volta all’estrema specializzazione su prodotti d’alta gamma. Tuttavia il commento spesso sussurrato a mezza voce tra gli addetti in Lombardia, in Veneto, in Toscana o altrove è inquietante: “non ci sono ordini”.
Aldo Premoli
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