Osservare un’opera d’arte, che si tratti di una creazione di haute couture o un’installazione di design, va oltre la contemplazione: è un viaggio nella decodificazione di significati e dettagli che rivelano intenzioni e emozioni dell’autore. Se ogni fase della vita contribuisce alla costruzione di una storia di crescita, l’infanzia assume un ruolo significativo perché contribuisce alla creatività. Senza citare specifiche evidenze scientifiche, come l’Abecedarian Project del 2013, che dimostrano la correlazione tra le esperienze dei primi cinque anni di vita e le scelte adulte, si può considerare l’età fanciullesca come il periodo in cui il bambino, con una mente plastica e recettiva, è capace di assorbire esperienze, emozioni e stimoli che, consapevolmente o meno, lasciano un’impronta duratura. In questo, la creatività è spesso libera da vincoli e condizionamenti, permettendo al bambino di esplorare con una mente aperta e curiosa. Ma fino a che punto l’infanzia può plasmare la creatività dell’individuo? Come possono le conquiste e i traumi della tenera età influenzare il suo futuro, specialmente nel contesto della moda?
Un orfanotrofio d’ispirazione: Coco Chanel
La creatività non è solo un’espressione personale, ma anche uno specchio delle dinamiche socioculturali del momento. Alcuni stilisti hanno saputo interiorizzare situazioni complesse, trasformandole in strumenti di crescita e riscatto. Ancora bambini hanno nutrito una creatività atavica, desiderosa di saziare sé stessi e gli altri fino a colmare ogni spazio vuoto. Coco Chanel, nata nel 1883 a Saumur, una piccola cittadina nella Valle della Loira, conobbe presto le difficoltà della vita. I genitori scelsero il nome Gabrielle, aggiungendo la parola Bonheur, che significa “felicità”, nella speranza di un’esistenza fortunata. Nonostante le condizioni di povertà, furono la prematura scomparsa della madre Jeanne e il conseguente trasferimento all’orfanotrofio di Aubazine a segnare Coco.
Chi era Coco Chanel
A soli dodici anni, un’esile bambina dai capelli corvini affrontò la prima grande delusione verso il mondo adulto. Così ha costruito un rifugio interiore in cui il bianco e il nero, ripetuti in una sequenza bicroma, si ispiravano a ciò che la circondava. Le vesti informi delle monache, i letti in ferro battuto delle camere, gli altari sacri dell’abbazia adiacente e ogni altro dettaglio si rivelarono fondamentali per il suo successo. Le influenze dell’infanzia trascorsa nel convento erano evidenti nelle sue collezioni: i rosari indossati dalle suore come cinture si trasformarono in eleganti collane di perle bianche, l’iconica doppia C intrecciata richiamava i motivi geometrici delle vetrate istoriate di Aubazine, e il numero 5 simboleggiava le forme pentagonali incise nei pavimenti delle cappelle. Persino l’odore del bucato appena steso sul prato dell’orfanotrofio le rimase impresso, ispirandola nella creazione del profumo Chanel N.5, tra una nota di ylang ylang e una di bergamotto. Quando, ormai adulta, aprì la prima boutique in Rue Cambon, a Parigi, si rese conto che la sua clientela non acquistava solo abbigliamento e accessori, ma anche gli ornamenti della propria infanzia.
Sui cavalli, ma non a dondolo: Thierry Hermès
L’infanzia, come categoria sociale riconosciuta, emerse in Europa occidentale solo nel secondo Novecento. Thierry Hermès, nato nel 1801, non poté beneficiare dell’attenzione necessaria e iniziò a lavorare fin da piccolo. La sua famiglia possedeva una locanda a Krefeld, una città tedesca nota come crocevia per i compratori di seta e velluto pregiati, e gli affidarono il compito di occuparsi dei cavalli degli ospiti. Trascorreva ore a osservarli incantato. Una volta adulto e trasferitosi in Alta Normandia, apprese tutti i segreti dell’artigianato e all’età di 36 anni realizzò il sogno di aprire un negozio di selle e finimenti per l’equitazione nel cuore di Parigi. La popolarità non tardò ad arrivare; i suoi pregiati manufatti riuscivano a soddisfare l’esigente clientela francese in cerca di eccellenza e raffinatezza. La mansione che i genitori gli avevano assegnato nella locanda lo avvicinò, forse inconsciamente, al mondo equestre per tutta la vita. E i cavalli che accudiva divennero compagni di grande valore e ispirazione. Lavorare con loro era diventato un gioco, e quel senso di accudimento da offrire gli riservò inaspettate lezioni di vita e preziose ispirazioni per il futuro, anche del suo brand i cui accessori sono tanto ambiti.
Tra bagagli monogram ed emotivi: Louis Vuitton
Non lontano dal negozio di Hermès, situato in Rue Basse-du-Rempart, si trovava quello di Louis Vuitton, un fabbricante di bauli. La sua infanzia fu piuttosto felice, ma segnata dalla perdita della madre, una modista con la passione per il confezionamento su misura di vestiti e accessori. Quando il padre di Vuitton si risposò, la nuova moglie lo spinse a lasciare la casa in cui era cresciuto. Partì a piedi verso Parigi con una piccola valigia, intraprendendo un lungo viaggio che durò quasi due anni. Arrivato nella Ville Lumière, accettò subito il lavoro offerto da Monsieur Marechal distinguendosi per l’abilità con cui progettava e realizzava scatole. Dopo anni di pratica, aprì il suo primo negozio, inauguraro con l’insegna “Imballa in modo sicuro gli oggetti più fragili. Specializzato nell’imballaggio delle mode”. Tra un progetto e l’altro, iniziò a progettare bauli da viaggio diversi dai tradizionali modelli in pelle a forma arrotondata, optando per un design innovativo in legno di pioppo a forma rettangolare. La vera novità era il materiale con cui ricopriva il parallelepipedo: una tela cerata grigia, impermeabile all’acqua e agli odori, conosciuta come Grey Trianon. Questa scelta rese i bauli monogram sinonimo di esclusività e qualità. La sofferta decisione di lasciare il proprio ambiente familiare per mettersi in gioco scatenò una duplice sfida: quella di sperimentare la vita del viaggiatore, che richiedeva equipaggiamenti resistenti, e quella di raccogliere i ricordi frammentati della sua famiglia, conservandoli in valigie impermeabili e resistenti.
Il gusto è una questione di famiglia: Hubert de Givenchy
Le passioni e le inclinazioni trasmesse dai membri della famiglia possono rappresentare il punto di partenza per costruire una spiccata identità creativa, a volte smarrita, altre volte inespressa. Tuttavia, oltre a ciò che può essere tramandato, è fondamentale l’esposizione precoce all’arte e alle sue diverse forme. Hubert de Givenchy, ad esempio, riuscì a superare la dolorosa perdita del padre grazie a una madre molto presente e sempre pronta a offrirgli nuovi stimoli. Nella quotidianità, però, c’era una costante: la passione per i tessuti. Proveniente da una famiglia nobile discendente da conti, a Givenchy tutto era concesso, persino acquistare quotidianamente stoffe e materiali pregiati da studiare, toccare e analizzare con curiosità e minuzia. Con quelle stoffe Givenchy sognava di vestire le protagoniste dell’Opéra di Parigi, dove il bisnonno lavorava come scenografo. Il mondo dietro le quinte del teatro rifletteva quello dello stilista, impegnato a perfezionare ogni elemento per contribuire al successo dello spettacolo. Il contesto familiare fu cruciale per alimentare la sua vena creativa, inizialmente timida ma poi magnetica. Quando cominciò a disegnare abiti, rimase sorpreso dall’interesse suscitato tra artiste e attrici di Hollywood, tra cui Audrey Hepburn, che divenne sua musa ispiratrice e amica per tutta la vita.
Vita felice, solo in mondi paralleli: Elsa Schiaparelli
Tuttavia, appartenere a una famiglia benestante non garantisce il supporto necessario per realizzare i propri sogni. Lo sapeva bene Elsa Schiaparelli che, pur provenendo da una famiglia agiata di Roma, non ricevette mai il sostegno e l’affetto dei genitori. La sua nascita suscitò persino delusione. I genitori avevano sperato in un maschietto e questo disappunto portò a darle il nome della bambinaia, privandola di un’identità. Crescendo, quella fanciulla così bistrattata ma ricca di potenzialità, si sentiva spesso inferiore alla sorella Beatrice, considerata più elegante e bella. Un giorno, si domandò: “Sarò mai bella come una peonia?”. Chiese allora al giardiniere di famiglia di procurarle alcuni semi di gladiolo, che inserì nelle orecchie, nella bocca e nel naso, aggiungendo batuffoli di cotone nella speranza che un giardino fiorito potesse sbocciare sul viso e nascondere la sua immagine. Ma anziché ottenere il risultato desiderato, rischiò di soffocare. Da quel momento, Schiaparelli comprese di poter fare affidamento solo su sé stessa. La moda divenne il suo unico regno di libertà, in cui poteva esprimersi senza il peso di dover compiacere gli altri. Tra atti performativi ed espressioni surrealiste, Elsa si riscoprì bambina, alla ricerca di dimensioni salvifiche che potessero incantarla e anestetizzarla dai dolori passati.
Una vocazione artigiana: Salvatore Ferragamo
Anche Salvatore Ferragamo, nato alla fine dell’Ottocento come Elsa Schiaparelli, avvertiva il peso della responsabilità verso la famiglia. Cresciuto nel paesino di Bonito, in provincia di Avellino, presto comprese le difficoltà economiche che affliggevano la sua famiglia. Essendo l’undicesimo di quattordici figli, trovare lavoro era una necessità. Quando trovò impiego presso il calzolaio del paese, Mastro Luigi Festa, la reazione della famiglia fu inaspettata. Non riuscivano a capire perché Salvatore avesse scelto un mestiere considerato umiliante come quello del calzolaio. Sua madre gli suggerì di emigrare in America, come avevano fatto i suoi fratelli, ma lui rimase in Italia per continuare quel lavoro che aveva appena cominciato ad apprezzare. Il laboratorio gli sembrava una scuola divertente, e la scarpa un oggetto prezioso. Una volta, trovò sua madre in lacrime, sopraffatta dalla disperazione per non poter acquistare le scarpette bianche necessarie alla prima comunione delle sue figlie. All’età di dieci anni, Ferragamo decise di chiudersi in negozio e confezionare in una sola notte quelle scarpe da cerimonia, conquistandola per sempre. La passione e il talento gli permisero di conquistare rapidamente una clientela numerosa e fedele. Quando, ormai adulto, decise di trasferirsi in America, rimase sorpreso dalla produzione standardizzata delle calzature. Prima a Boston e poi a Los Angeles, trovò immense fabbriche rumorose dove la produzione avveniva in serie, priva di anima e sentimento. Per lui, l’arte della calzatura era una vocazione che si univa ai sentimenti. Ripeteva spesso: “Se una scarpa non calza bene, è colpa della scarpa stessa e non del piede”. Questo approccio umile e modesto, radicato fin dall’infanzia, lo spingeva a dedicarsi con passione a rendere felici i suoi clienti.
Marta Melini
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