Nei primi fotogrammi del film Maschere di celluloide (1928) di King Vidor, Marion Davies approda vestita di fiocchi e merletti sotto il cielo della Mecca del cinema. Incredula, spaesata e esagitata, mentre percorre l’Hollywood Boulevard il suo sguardo rimbalza da un’insegna all’altra: caffè, uffici, botteghe e l’Hollywood Boot Shop. Un negozio di scarpe, aperto nel 1923 per mano di un giovane sognatore italiano emigrato negli Stati Uniti una manciata di anni addietro, Salvatore Ferragamo. Da quel momento in poi, mentre Los Angeles accreditava la sua rilevanza economico-culturale e una monumentale targa pubblicitaria bianca s’imprimeva irrevocabilmente sul Mount Lee, la sua produzione di calzature si è evoluta di pari passo con la settima arte, diventando a tutti gli effetti il “calzolaio delle dive”.
La mostra Salvatore Ferragamo 1898-1960
A distanza di cent’anni da quel punto di svolta, con la mostra Salvatore Ferragamo 1898-1960 (a cura di Stefania Ricci, Direttore Museo Ferragamo e Fondazione Ferragamo) le creazioni del designer di scarpe trovano un’eco tutta nuova negli spazi del Museo Ferragamo al Palazzo Spini Feroni di Firenze. Inaugurata il 27 ottobre 2023, con chiusura prevista per novembre 2024 e successiva proroga fino al 27 aprile 2025, prendendo in esame il medesimo arco temporale, ovvero l’intera vita di Ferragamo dalla sua nascita alla sua morte, la rassegna rievoca la prima retrospettiva itinerante presentata nel 1985 a Palazzo Strozzi. Una mise-en-place emblematica e pionieristica nel rappresentare la moda come portatrice di un messaggio culturale polisemico, dalla cui raccolta di cimeli e testimonianze nacque dapprima l’Archivio Ferragamo, e dieci anni più tardi il Museo.
Tra valore estetico e documentario
Differente, però, è oggi la prospettiva curatoriale e la selezione dei contenuti: non solo si pone l’accento sul valore estetico delle opere, ma anche sul loro valore documentario tout court, quello dell’azienda e dei suoi protagonisti. Così come dall’analisi del contesto spazio-temporale a cavallo delle due guerre sull’asse Firenze-Los Angeles emerge l’apporto di Ferragamo alla definizione del Made in Italy, fotografie e studi in gesso sottolineano la profonda conoscenza anatomica del piede umano, esemplificata con l’introduzione del cambrione, una lamina di sostegno in acciaio, e relativo brevetto nel 1931.
Salvatore Ferragamo come artistica hollywoodiano
Da abile interprete dello Zeitgeist, spicca poi lo sguardo imprenditoriale intuitivo e propenso all’innovazione, nel tessere la fortunata liaison ante litteram con la Golden Age dell’industria cinematografica. Fino a sondare il coraggio progettuale quasi “futuristico”, come lo definiva l’artista e designer Thayaht nei suoi diari, lessicalizzato dal savoir faire, dai materiali e dall’originalità. Basti pensare alle zeppe Rainbow per Judy Garland, o ai tacchi a cavatappi tempestati di perle finte per Gloria Swanson. Nonché alle scarpe per Anna Magnani in merletto di Tavarnelle, fino ad allora riservato solo alla lingerie, oppure al sandalo Kimo, ispirato alle Tabi giapponesi e presentato nientemeno che durante la prima sfilata per promuovere la moda italiana, organizzata da Giovanni Battista Giorgini nel 1951 nella Villa Torrigiani di Firenze.
La mostra come ricordo
La mostra Salvatore Ferragamo 1898-1960 si presenta dunque come una bobina della memoria, sul cui nastro scorrono oggetti, documenti e pensieri, in confronto osmotico con il progetto espositivo precursore dell’istituzione museale permanente. Di conseguenza, quest’indagine a ritroso non può che intersecarsi e riflettersi con la funzione del contenitore. Se da un lato il Museo Ferragamo è il luogo eletto a conservare la storia del fondatore, dall’altro le sue mura sono dinamiche e vive, promuovendo incontri, pubblicazioni e workshop con lo scopo di far dialogare l’impresa e il pubblico, il passato e il presente in “un’eterna marea senza fine”, per dirla con le parole di Ferragamo. Offrendo allo spettatore inediti punti di vista sulle pratiche curatoriali legate alla moda e rinnovati spunti di riflessione.
Aurora Mandelli
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