Le novità del tessile sullo scacchiere della moda e la corsa del fast fashion
Il fast fashion ha repentinamente preso il posto di quello che a suo tempo si chiamava prêt-à-porter Ma dietro all’offerta sgargiante che proviene da questo mondo si celano tante, pesanti contraddizioni
Le novità ci sono. Alcune buone, altre meno. O forse il contrario, dipende dal punto di vista dell’osservatore. Dal mercato cinese che per i primi otto mesi del 2024 ha messo in ginocchio i titoli del lusso è giunto qualche giorno fa un segnale di speranza: a Pechino la Banca Centrale ha varato una serie di misure espansive per favorire i consumi sino a questo momento in decisa contrazione tra i consumatori di quel paese. Le quotazioni dei titoli dei gruppi del lusso sono ripartite immediatamente, anche se la strada da percorrere per recuperare le posizioni perse è tutta in salita. È una buona notizia? Per l’industria certamente sì. Assai incerto resta l’effetto sulla sostenibilità delle produzioni, una sostenibilità di cui l’intero pianeta ha estremo bisogno nonostante le quotidiane scemenze propinateci da decisori di ogni nazionalità e lingua.
I cambiamenti nel mondo della moda
L’altra notizia riguarda l’evolversi di un fenomeno solo apparentemente superficiale. Già da giugno 2022 mi era capitato di segnalare i sincopati cambi di casacca di alcuni tra i più celebrati creativi del settore moda. Stava iniziando una partita che da allora non si è più interrotta, anzi ha accelerato. Di recente ci sono stati avvicendamenti o affiancamenti dotati di una loro logica, insieme a dinamiche che, al contrario, appaiono bizzarre: improvvise defenestrazioni di designer ritenuti sino al giorno prima intoccabili, altrettanto improvvisi rientri alla guida di brand diversi e geneticamente (se si può concedere l’uso di questo vocabolo) incompatibili con i primi. Lunghi periodi di stasi seguiti da repentine migrazioni, da un brand all’altro da un super gruppo del lusso all’altro. Sto parlando delle recenti vicende di Alberta Ferretti o del costituito duo Miuccia Prada con Raf Simons nel primo caso. Di Alessandro Michele, Pier Paolo Piccioli, Virginie Viard, Dries Van Noten e Peter Hawkings, di Sarah Burton o di John Galliano nel secondo. Tutti eroi o vittime di un quadrante di gioco che per lo meno nel lusso resta omogeneo.
Il fast fashion
Differente la situazione dello scacchiere in cui gioca la sua feroce partita il fast fashion. Per i gruppi di questo segmento del tessile a confondere le acque inizialmente sono arrivate le capsule collection in collaborazione con star del fashion, un modo per esibire la nobilitazione degli stracci in vendita. Il gruppo spagnolo Inditex (Zara, Pull&Bear, Massimo Dutti, Bershka, Stradivarius e Oysho) che del settore è il leader, lo ha fatto in passato con Narciso Rodriguez, più di recente con Rhuigi Villasenor, ma ha coinvolto anche un non-stilista ma eccelso costruttore di immagini moda come Steven Meisel. Ultimo in ordine di arrivo da questo settembre Stefano Pilati e non con una semplice capusle ma con una collezione co end che è stata preannunciata capace di 50 stili per uomo e 30 per donna, risultando dunque piuttosto estesa. Il gruppo svedese H&M (Cheap Monday, COS, Monki, Weekday & Other Stories) è stato forse il primo con Karl Lagerfeld nel 2004 a inaugurare questa strategia: a seguire sono arrivati, Stella McCartney e Roberto Cavalli, Comme des Garçons, Alber Elbaz, Donatella Versace, i designer di Marni, Kenzo e Moschino. Per tutti loro si è trattato di denaro rapido a fronte di un impegno relativo rispetto alle loro capacità.
Il caso Keller e Uniqlo
Di recente però questo limite è stato ulteriormente superato. Il gruppo giapponese Uniqlo in passato capace di collaborazioni con Helmut Lang, Jil Sander o J W. Anderson ha affidato già dal 2023 a Clare Waight Keller la direzione artistica per la linea femminile Uniquo:C, ma di recente ne ha ampliato il ruolo sino a comprendere la sua intera gamma di proposte di non una capsule o una linea, ma la direzione creativa a tutto tondo del brand. Waight Keller, cresciuta in Gucci durante la direzione di Tom Ford, è stata art director di Pringle of Scotland, di Chloè, quindi di Givenchy (fino all’aprile 2020). La designer inglese è conosciuta per il suo tocco leggero, quasi couture. Nel 2018 il suo nome era rimbalzato sui media mondiali per aver disegnato l’abito da sposa di Meghan Markle per il matrimonio con il principe Harry. E non si tratta di caso isolato. The Gap (Gap e Banana Repubblic, Athleta e Old Navy) dallo scorso febbraio ha un nuovo direttore creativo. Zac Posen si occuperà del brand più celebre, ma è divenuto anche vicepresidente esecutivo di Athleta e chief creative officer del marchio Old Navy.
Le contraddizioni del fast fashion
La curva di crescita del fast fashion avanza in tutte le direzioni. Il mix di velocità, prezzo accessibile e design sempre più vicino a quello dei brand del lusso è travolgente. Aiuta pure la diminuita capacità di acquisto del consumatore medio: così il fast fashion ha preso il posto di quello che a suo tempo si chiamava prêt-à-porter (snobistica traslazione del termine pronto moda). Non c’è altra ricetta, solo una maggiore sensibilità del singolo può opporsi limite a un’offerta sgargiante che nasconde l’orrore su cui si basa: lavoro spesso in condizioni di semi-schiavitù, metodi di produzione senza controllo sull’inquinamento prodotto e scarti generati in quantità insostenibile dispersi ovunque sia possibile farlo legalmente o meno. Il fast fashion è e diviene sempre più il cuore nero del tessile. Nel 2022 Inditex ha piazzato 621 mila tonnellate di articoli per stimolare i consumatori a fare acquisti continui. Mentre assistiamo a nuovi temibili ingressi in questa arena planetaria: quello delle piattaforme Temu e Pinduodo (base Shanghai) e quello del brand cinese (base a Singapore) Shein. Temu e Pinduodo (quotazione a Wall Street) sono gestite dalla società PDD Holdings e offrono beni di consumo a prezzi stracciati che vengono per lo più spediti ai consumatori direttamente dalla Cina. Shein con l’obbiettivo di soddisfare 150 milioni di utenti è capace di produrre fino a sei mila capi e accessori al giorno e mentre si prepara al futuro sbarco al London Stock Exchange per il 2025 prevede di poter raggiungere oltre 260 milioni di consumatori. Un filo di speranza arriva dalla classifica delle app moda più scaricate in Europa (almeno in Europa!) dietro Shein, c’è la piattaforma lituana di e-commerce dedicata all’abbigliamento second hand: si chiama Vinted.
Aldo Premoli
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