Il 2024 è stato l’anno dei giri di poltrone nella moda, ossia dei cambi di coloro che dirigono creativamente i marchi del lusso. Non sono “solo” stilisti, bensì i volti che rappresentano l’azienda e ne plasmano l’estetica, lavorando a quattro mani con chi si occupa di marketing e merchandising per creare il prodotto finale da vendere.
L’anomalia dei cambi di direzione creativa nel lusso
Potrebbe sembrare normale, ma non è così, perché nell’arco dell’ultimo anno sono cambiati una decina di direttori creativi di più e più firme, dopo anni di lavoro per lo stesso brand. John Galliano, Matthieu Blazy e Louise Trotter sono stati gli ultimi a dare notizia di sé: il primo per aver lasciato Maison Margiela dopo 10 anni, il secondo per aver ottenuto il tanto ambito ruolo di creative director di Chanel e la terza per aver preso il posto di Blazy da Bottega Veneta, facendo sì che la storica maison francese Carven restasse sguarnita di un direttore creativo. E non è tutto qui.
Tutti i cambi di direzioni creative nella moda
Pierpaolo Piccioli ha salutato Valentino, che ha nominato Alessandro Michele come nuovo direttore creativo; Moschino ha reso Adrian Appiolaza il successore di Davide Renne, lo stilista morto a un mese dal suo annuncio come erede di Jeremy Scott; Walter Chiapponi, a capo di Blumarine per solo una stagione, si è dato il cambio con lo stilista georgiano David Koma; il celebre Hedi Slimane è sgattaiolato via da Celine lasciando il suo posto all’americano Michael Rider, ex Polo Ralph Lauren. E ancora, Sarah Burton è arrivata da Givenchy, mentre Glenn Martens avviava la sua separazione da Y/Project e Haider Ackermann abbracciava l’idea del suo meritato, nuovo impegno per Tom Ford.
La moda 2024 come un gioco da tavolo
A risentirne è lo stato di salute della moda. Questi continui annunci dell’ultimo minuto, che alimentano il gossip e sono allo stesso tempo alimentati (o preceduti) dal chiacchiericcio, hanno reso il sistema più instabile di prima e, forse, di sempre. D’altronde, stabilità chiama instabilità: dopo anni di conti in verde e guadagni milionari, la crescita inarrestabile del lusso, compresa la moda, non è più tale. Resta il fatto che si parla pur sempre di incassi da capogiro, ma preoccupa un ritmo che rallenta anziché aumentare in una società capitalistica per cui il consumo sregolato è positivo.
L’incertezza del sistema moda
La causa dell’incertezza che domina il sistema moda internazionale è dovuta alla crisi finanziaria che ha investito la Cina, il primo Paese a trainare il business del lusso insieme ad altri Paesi asiatici, tra cui Giappone e Corea del Sud. Nel momento in cui uomini e donne cinesi hanno rinunciato a seguire senza alcun limite le tendenze dettate dai grandi marchi, complice l’instabilità economica che il Governo locale ha cercato di arginare invitando i cittadini all’acquisto (consci del fatto che quando questo cala, sorgono non pochi problemi, a partire dagli investimenti sul territorio), la ruota della moda ha cominciato a scricchiolare fino a girare all’indietro.
La crisi finanziaria in Cina
Così, gli amministratori delegati di quelle potenze chiamate marchi di moda, inglobati in importanti gruppi del lusso come LVMH e Kering che consapevolmente hanno le mani su produttori e diffusori di cultura, hanno spostato le loro pedine spinti dalla paura dei trimestri in rosso. A volte, però, il motivo non sono i creativi a capo del Valentino o del Fendi del caso, ma una condizione indipendente dall’arte del vestire e persino dalle strategie commerciali. Non per altro, questa situazione di incertezza economica si era già presentata nel 2009, e anche in periodi più vicini al 2024. E nello stesso modo in cui si è presentata, è gradualmente scomparsa lasciando spazio, solo in Cina e in altri Paesi che si contano sul palmo d’una mano, al consumo folle che piace ai CEO di oggi, orientati a valorizzare il breve termine.
La crisi creativa come conseguenza
Crisi finanziaria implica crisi strategica. I cambi repentini, e talvolta illogici, dei direttori creativi sono inclusi nella strategia messa in atto da chi fa tornare i conti. Ma strategico è anche l’appiattimento delle collezioni dei marchi che dovrebbero definire il modo di vestirsi delle persone, di stagione in stagione. Ora è tutto un tessere le lodi della semplicità dell’abbigliamento, come nel 2010, l’anno del normcore (che si traduce in vestiti normali, quindi noiosi ma democratici). Dunque, crisi finanziaria chiama pure crisi creativa, dato che di creatività non si parla più. Un collega molto arguto mi ha detto che oggi i marchi non sono più interessati a un direttore creativo, bensì artistico: la differenza sta nel fatto che il secondo, rispetto al primo, mette insieme ciò che arriva dai vari dipartimenti, per esempio quello del marketing. Come mai? Non c’è stato più interesse né spazio, tanto meno tempo, per la creatività dal momento in cui la moda è stata ridotta a mero prodotto commerciale, sempre meno culturale. E questi sono i risultati: il sistema è totalmente, irrimediabilmente in balia della finanza. Tornare indietro è un’utopia che pochi, soprattutto poco rilevanti, inseguono. Così si appiattisce il valore dell’arte del vestire, che è diventata solo arte del vendere.
Giulio Solfrizzi
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