Moda e sostenibilità: il valore delle certificazioni aziendali nel settore tessile
Scegliere un capo certificato piuttosto che un altro può aiutare a orientare il mercato, anche se sono tanti i marchi nati con intenzioni ‘sostenibili’ che non hanno ancora ottenuto certificazioni. Abbiamo intervistato tre brand che si distinguono nel campo
La certificazione è un elemento chiave per un settore come il tessile, uno dei più inquinanti al mondo, che deve raggiungere entro il 2030 il 12° Obiettivo (ma anche il 13°, 14°, 15°…) di sviluppo sostenibile (SDGs) e garantire nuovi modelli di produzione e di consumo. Viene rilasciata da un ente terzo indipendente e regolarmente accreditato, che sia un’organizzazione o un’associazione locale o internazionale che garantisca la conformità dei prodotti e dei processi produttivi di un’azienda secondo una serie di requisiti, di cui i fondamentali sono la qualità, l’origine, la sicurezza, la sostenibilità e la tutela dei lavoratori.
L’utilità delle certificazioni nella moda
Le certificazioni permettono ai consumatori di fare scelte consapevoli, ma consentono anche alle aziende di riconoscere il proprio impatto sull’ambiente e di migliorare le proprie pratiche; soprattutto, consentono di monitorare e migliorare le condizioni di lavoro dei dipendenti. La concessione delle certificazioni deve essere preceduta da un preciso iter e seguita da controlli periodici per garantire il rispetto degli standard anche nel tempo, e qualsiasi scostamento può portare alla revoca della certificazione. Oggi ve ne sono variegate, ognuna focalizzata su un particolare ambito, e ne esistono di ambientali, etiche e sociali, per i diritti degli animali, per i materiali biologici, per il riciclo delle risorse, per l’assenza o la limitazione di sostanze pericolose e per la produzione sostenibile di cotone. Ma alcune di queste certificazioni soddisfano più di un criterio tra quelli menzionati.
Brand di moda certificati: una selezione
Resta il fatto che la certificazione è a carico dell’azienda o del marchio che chiede di essere verificato da un ente esterno indipendente.Artribune ha selezionato tre brand – un brand di intimo, LATTE the label, uno di sneakers, ID.EIGHT, e uno di maglieria, Rifò – per vestirci da testa a piedi in maniera certificata e porre qualche domanda a ognuno sul percorso verso la transizione sostenibile del proprio brand attraverso l’uso delle certificazioni. Alcune hanno già intrapreso il percorso per certificare il proprio marchio, altre utilizzano materiali a loro volta certificati per garantire qualità e sostenibilità. Tutte progressivamente si muovono verso lo stesso orizzonte.
La sostenibilità nel brand ID.EIGHT. L’intervista
ID.EIGHT è il brand toscano che realizza sneaker a partire da scarti dell’industria alimentare, come bucce di mela, raspi d’uva, foglie di ananas, mais e micelio. Ha ottenuto il punteggio VVV+, il valore più alto, nel rating di Animal Free Fashion.Artribune ha dialogato con i fondatori Giuliana Borzillo e Dong Seong Lee.
Quando avete intrapreso il percorso verso la certificazione?
Abbiamo ottenuto la certificazione Animal Free LAV label nel 2020, come naturale estensione del nostro impegno per una moda etica e sostenibile. Fin dall’inizio, il nostro progetto si è fondato sulla volontà di escludere l’uso della pelle animale (e non solo: non utilizziamo lana, seta, pelliccia…) puntando invece sulla circolarità, sul recupero di materiali di scarto alimentare e sulla ricerca di soluzioni innovative. Questa certificazione conferma e consolida i valori che guidano ogni nostra scelta.
Come sono cambiati i vostri rapporti con i clienti?
La nostra clientela condivide già una visione di moda consapevole e responsabile, ma la certificazione Animal Free ha ulteriormente rafforzato il rapporto di fiducia. Comunicare in modo chiaro e autorevole il nostro approccio cruelty-free offre un valore aggiunto significativo, rendendo il legame con il brand ancora più solido. Sappiamo che la sostenibilità è una scelta che richiede consapevolezza e impegno (anche economico), e i nostri clienti apprezzano il nostro sforzo di tradurre i valori etici in prodotti.
Come sono cambiati i vostri rapporti con i fornitori?
La selezione dei fornitori è da sempre un elemento cruciale della nostra filosofia: non è possibile parlare di sostenibilità senza un impegno concreto lungo tutta la filiera. Collaboriamo esclusivamente con realtà che condividono i nostri valori e che rispettano criteri rigorosi in termini di sostenibilità ambientale, etica e sociale. Questo approccio si traduce in un dialogo costante e in un’attenta verifica dell’origine e della tracciabilità dei materiali. Grazie all’uso del digitale, assicuriamo massima trasparenza: ogni nostra sneaker è dotata di un QR code che permette di accedere alle informazioni sui materiali.
Come è cambiato il vostro modo di operare?
Il nostro modo di operare è in costante evoluzione, guidato dalla ricerca di soluzioni innovative e cruelty-free che non compromettano né la qualità né lo stile. Grazie ai progressi nel campo dei materiali sostenibili, oggi realizziamo le nostre sneakers con circa il 70% di componenti riciclati e riciclabili. Questo risultato ci sprona a migliorare ulteriormente, e ci siamo posti l’obiettivo di aumentare questa percentuale di almeno un altro 10% nel prossimo anno.
Quali benefici avete riscontrato?
I benefici sono molteplici e tangibili. La certificazione ci ha permesso di rafforzare il nostro posizionamento nel mercato della moda sostenibile e di ampliare il dialogo con un pubblico attento e consapevole, guadagnando maggiore fiducia da parte dei clienti e consolidando la percezione del brand come pioniere dell’etica e della sostenibilità.
La sostenibilità nel brand LATTE the label. L’intervista
Il brand di intimo LATTE produce tutto in Italia, tra Emilia Romagna, Puglia, Lombardia e Veneto e ha trovato nella fibra di bamboo il materiale ideale per il contatto diretto con la pelle. Utilizza prodotti certificati Forest Stewardship Council (FSC), Global Organic Textile Standard (GOTS) e OEKO-TEX. Artribune si è confrontato con la fondatrice Sonia Benassi.
Quando avete iniziato a occuparvi di certificazioni?
Il progetto LATTE The Label è nato nel 2022 e fin dall’inizio abbiamo scelto di collaborare con produttori che certifichino la qualità e la provenienza della materia prima, come la fibra di bamboo certificata FSC e la fibra di cotone organico certificata GOTS. Non avendo un comparto produttivo di proprietà, ci appoggiamo quindi a fornitori esterni certificati. Per quanto riguarda l’effettivo confezionamento dei prodotti collaboriamo invece con piccole realtà artigianali italiane che abbiamo conosciuto e visitato.
Tra le varie opzioni disponibili, cosa vi ha portato a scegliere materiali FSC, GOTS e OEKO-TEX?
Noi abbiamo sin dall’inizio l’obiettivo di lavorare solo con realtà italiane e quindi accorciare e controllare la filiera, è il nostro impegno, nonostante abbia un costo importante. I fornitori di materie prime a cui ci siamo rivolti hanno subito potuto soddisfare le nostre richieste e tra le opzioni disponibili scegliamo l’opzione certificata, anche se non è sempre possibile soddisfare tutte le richieste. A volte siamo costretti a rinunciare ad alcune colorazioni per mancanza di certificazione, per poter garantire sicurezza ed essere coerenti.
Quale certificazione scegliete come prima opzione per il vostro futuro?
La certificazione B Corporation ma essendo la nostra azienda così “giovane” non abbiamo ancora avuto modo di intraprendere il percorso perché richiede molte risorse (è molto costosa e giustamente l’iter è molto lungo), non possiamo adesso investire in questo ambito, ma è nei nostri futuri obiettivi.Abbiamo la fortuna di essere nati già con questa impostazioni e la certificazione ha molto valore sulle grandi aziende che si sono dovute aggiornare rispetto ai loro soliti sistemi. Il nostro progetto ha ancora dimensioni tali in cui riusciamo ad avere il controllo sul nostro operato nonostante si possa fare sempre meglio.
Quali benefici avete riscontrato? i vostri clienti valorizzano questo aspetto?
È qualcosa che i clienti non ci chiedono, non c’è ancora una consapevolezza reale al riguardo a meno che non si tratti di addetti al settore. Non è un aspetto che colpisce e non credo siano così conosciute, nel migliore dei casi sono sigle che si sentono nominare e si associano a qualcosa di positivo ma se non lo scrivessimo sono sicura che non verrebbero notate. Parte piuttosto da noi. Il cliente tende a notare il tessuto di bambù utilizzato piuttosto che la certificazione ma speriamo che ci sia sempre più consapevolezza al riguardo, perché c’è una grande differenza tra bamboo organico, certificato e uno che non lo è.
La sostenibilità nel brand Rifò. L’intervista
L’azienda di maglieria di materiali rigenerati, cashmere, lana, denim, cotone, seta, lino e viscosa, nasce a Prato, sede della storica tradizione legata alla rigenerazione tessile. Rifò certificata B Corporation, utilizza materiali a loro volta certificati Global Recycle Standard (GRS), Responsible Wool Standard (RWS), OEKO TEX, Recycled Claim Standard (RCS), e Organic Content Standard (OCS). Artribune ha intervistato Eleonora Marini, responsabile del team comunicazione.
Quando avete iniziato a occuparvi di certificazioni?
Sin dalla fondazione di Rifò abbiamo cercato materiali certificati. Il materiale che utilizziamo maggiormente, il cashmere rigenerato, ha una cultura sviluppata in questo senso, ma non è sempre così per gli altri materiali. Si tratta di garanzie importanti e sono strumenti per noi per reperire informazioni veritiere, numeri e dati affidabili da poter riportare ai nostri clienti, che danno sostanza all’attività che portiamo avanti. Cerchiamo di comunicare e mostrare tutti i processi dei nostri prodotti e portare le persone all’interno delle fabbriche in questa filiera cortissima che coltiviamo.
Quale ragione vi ha portato a scegliere B – Corporation come prima certificazione aziendale?
Ci è sembrata la certificazione aziendale più completa in grado di ricoprire i vari aspetti, con un’attenzione particolare agli aspetti sociali interni all’azienda. E soprattutto i controlli danno luogo a un punteggio che può crescere con il tempo senza un limite, spingendo l’organo dell’azienda ad alzare l’asticella e continuare a crescere. Nel 2020 avevamo un punteggio di 99.1 che è salito all’attuale 127.1. Volevamo anche calcolare il nostro Life Cycle Assessment (LCA) – la metodologia analitica che valuta l’impronta ambientale di un prodotto o di un servizio, lungo il suo intero ciclo di vita – e abbiamo iniziato a verificare l’impatto ambientale di una selezione di nostri prodotti con Bcome.
Quali benefici avete riscontrato?
Credo che in Italia ancora il pubblico non abbia familiarità con le certificazioni, bisogna ancora che si crei cultura intorno a questo, all’estero ad esempio in Germania notiamo maggiore attenzione dai negozi che vendono i nostri prodotti. Quello che conta oggi è arrivare alle persone e comunicare cose reali che non risultino troppo complicate. Avendo un costo importante spero che non si vada nella direzione in cui risultano poi sostenibili solo i grandi brand che si sono certificati.
I vostri clienti valorizzano questo aspetto?
No i clienti no, lo vedo più come un nostro compito per diffondere consapevolezza su queste tematiche. Senza però neanche farsi abbagliare dalle certificazioni pensando che siano sufficienti a definire la sostenibilità di un brand. È una garanzia a livello oggettivo ma bisogna entrare nei dettagli, per esempio il denim per avere la certificazione Recycled Claim Standard, RCS, necessita solo di un 5% di materiale riciclato; il nostro è composto al 70% di cotone rigenerato proveniente da jeans usati, quindi ogni certificazione va approfondita.
Margherita Cuccia
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