Per la prima volta, il Palais Galliera dedica una mostra a un accessorio: il cappello. Stephen Jones, Chapeaux d’Artiste promette un affascinante viaggio nel processo creativo del celebre modista britannico, esplorando le fonti d’ispirazione e i profondi legami che hanno intrecciato il suo lavoro alla città di Parigi.
Il legame tra Stephen Jones e i grandi della moda
Con questo tributo, in scena fino al 16 marzo 2025, la capitale dell’alta moda celebra i capolavori architettonici di un artista che, pur non essendo francese, ha avuto un ruolo determinante nel successo di molte maison parigine. Dopo il debutto della sua prima collezione nel 1982, Jones ha infatti avviato collaborazioni con alcuni tra i couturier più eccezionali al mondo, come Jean Paul Gaultier, Thierry Mugler e Vivienne Westwood, distinguendosi per una creatività straordinaria e una tecnica impeccabile.
Ma il suo vero talento, che ha contraddistinto il suo operato fino ad oggi, risiede nella capacità di entrare in sintonia con il mondo dello stilista con cui collabora, amplificando il messaggio e rafforzando l’impatto visivo.
Quando, nei primi Anni Novanta, John Galliano diventa direttore creativo di Givenchy, vuole Jones al suo fianco. I due, oltre a condividere gli studi alla Central Saint Martins, sono legati da una visione estetica comune, radicata nei risvolti sociali, politici ed economici della britishness degli anni Ottanta, dove l’unica regola è essere sé stessi, oltre ogni convenzione. Il loro approccio sperimentale conquista i giovani parigini, che si trovano a fare i conti con una moda stagnante e obsoleta, pensata e prodotta solo per donne mature e facoltose.
Non solo accessorio: il cappello come simbolo di espressione
In un’intervista a Tim Blanks del 2020 Jones affermò: “Mi dispiace, Manolo (Blanhik, ndr) ma non è importante ciò che metti ai piedi, quanto quello che metti sulla testa”. Quelle poche parole, seppur simpatiche, racchiudono una semplice ma potente idea: il cappello non è solo un accessorio destinato a coprire o vestire, ma un mezzo per comunicare emozioni e stati d’animo, sia nei giorni felici sia in quelli più tristi. Negli anni della Seconda Guerra Mondiale, ad esempio, la creazione di copricapi non era solo un segno di ottimismo e speranza, ma anche un atto di creatività a cui aggrapparsi per sopravvivere a un presente avvilente, incarnando l’essenza della moda come strumento di escapismo. “Ogni creazione ha il dono di raccontare una storia diversa ogni volta” ribadisce.
Stephen Jones e la Royal Family
E tante sono le storie di sorpresa e meraviglia che un artista del suo calibro ha raccontato e continua a raccontare, avanzando in un mondo tanto variegato quanto affascinante, che spazia dalle principesse alle popstar. Oltre alle collaborazioni già menzionate e alle quattro collezioni annuali del suo brand omonimo, Jones crea cappelli su misura per una clientela esclusiva, presenza certa in occasioni straordinarie come le corse ippiche di Ascot. Coltivare un lungo rapporto di reciproca fiducia con la Royal Family è stato, per lui, un privilegio di cui andare fiero, essendo inglese. Per anni ha realizzato cappelli di ogni colore e dimensione per la Regina Elisabetta; quelli di Jones erano gli unici che, tanto perfetti, riuscivano a dissuaderla dall’indossare le raffinate sciarpe Hermès, annodate intorno alla testa con un fiocco sotto il mento.
Stephen Jones: dai club londinesi per entrare negli atelier parigini
Prima che Anna Piaggi lo consacrasse su Vogue Italia come il miglior creatore di cappelli al mondo, la carriera di Stephen Jones è stata a lungo in bilico, sospesa tra dubbi e sperimentazioni. La svolta arriva a diciotto anni, quando visita la mostra Fashion from 1900-1939 al Victoria & Albert Museum e scopre che la moda è la sua vera vocazione. È una rivelazione così intensa da spingerlo a lasciare Liverpool per frequentare il prestigioso corso in fashion design della Saint Martin’s School of Art. Tuttavia, mentre si immerge nello sviluppo delle collezioni donna, si rende conto che gli accessori lo affascinano più degli abiti. Ispirandosi al cappellaio londinese David Shilling, Jones alterna gli studi in inverno al lavoro in estate per apprendere le migliori tecniche dell’artigianato. Il suo trampolino di lancio è Lachasse, dove realizza il primo cappello destinato al mercato: un pillbox hat, o cappello a tamburello, di colore blu, con calotta piatta e tesa rigida, costruito con del cartone rivestito di crêpe de chine e impreziosito da un fiore argentato, dipinto con una bomboletta spray gentilmente regalata dal benzinaio del quartiere. Non è solo la coraggiosa progettazione con materiali di fortuna ad affascinarlo, ma anche l’energia unica che emana il dipartimento accessori in cui lavora. E, sebbene all’inizio il suo ruolo si limiti a servire caffè e brioche, con il tempo quel giovane volenteroso si conquista un posto al tavolo da cucito.
La storia straordinaria di Stephen Jones
Lo scambio quotidiano genera un intreccio continuo di influenze, creando un ambiente stimolante, ricco di spunti audaci, look alternativi e gusti musicali in continua evoluzione. Siamo all’inizio degli anni Ottanta, quando la new wave emerge con forza nella fiorente scena dei club-kid londinesi, decretando il superamento dell’era punk. Anche Jones, come molti suoi coetanei, ripone nell’armadio i pantaloni in pelle e gli anfibi neri per indossare quelli più romantici e colorati, in sintonia con le vibes dei Duran Duran e degli Spandau Ballet. È il periodo in cui condivide casa con Boy George e frequenta il leggendario Blitz nightclub, stringendo amicizie importanti che si riveleranno fondamentali per il suo debutto come modista. All’inizio di ottobre del 1980, a soli ventisei anni, inaugura il suo piccolo atelier nel seminterrato del negozio PX di Covent Garden. Con i pochi soldi a disposizione, realizza una trentina di cappelli per l’occasione, confidando che qualcuno ne colga il valore. Quel giorno il suo unico obiettivo è semplicemente arrivare al giorno successivo, ma in realtà riesce a fare molto di più. Gradualmente si fa strada nell’alta società londinese, intrecciando legami con figure di spicco come la principessa Diana. Una storia straordinaria che oggi, all’età di 70 anni, può raccontare al mondo con orgoglio.
Marta Melini
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