
C’è un gruppo del lusso di cui si parla raramente. Forse perché ha sempre tenuto un profilo basso nel suo modo di comunicare. Certo nel suo portfolio non sono annoverati i brand moda più noti. Dunhill e Montblanc a stento potrebbero rientrare nella categoria accessori; va meglio per la pelletteria di Delvaux; mentre, Peter Millar rientra nella categoria abbigliamento, ma è conosciuto soprattutto tra chi pratica il golf. A pieno titolo invece rientrano nell’alta moda i brand Alaïa e Chloè che hanno dato ottima prova di sé in questa confusa serie di presentazioni parigine dedicata alle collezioni autunno-inverno 2025-26.
Tre ragioni per cui il Gruppo Richemont merita considerazione
Eppure il Gruppo Richemont meriterebbe più considerazione. Per almeno tre ragioni.
La prima: è il secondo gruppo più potente del settore. Il suo fatturato nel 2024 si è posizionato dopo quello di LVMH (Bottega Veneta, Dior, Loewe, Louis Vuitton …) ma ha superato quello di Kering (Balenciaga, Gucci, Saint Laurent …).
La seconda: ha sempre perseguito una politica che consente ad ogni brand di mantenere una forte identità legata alla sua prima tradizione artigianale. Esempio di questo “spirito aziendale” è l’attività parallela svolta da Fondation Cartier pour l’art contemporain; che, con la sua programmazione di qualità, si colloca tre le big four nel settore dell’arte contemporanea.
La terza ragione: il successo registrato nel 2024 rappresenta una vera e propria rarità in momento che vede una flessione generalizzata delle vendite di questo comparto industriale.










Richemont un Gruppo dedicato al lusso
La Compagnie Financière Richemont SA ha sede in Svizzera. È stata fondata nel 1988 dal sudafricano Johann Rupert che ha così operato una scissione da altre attività (anche minerarie), costruendo un contenitore finanziario dedicato ai brand del lusso. Richemont si è fatto notare inizialmente per l’acquisizione di un marchio leader della gioielleria come Cartier, a cui poi ha affiancato Van Cleef & Arpels e infine Buccellati. Rende poi sempre più potente il comparto dell’orologeria: Piaget, IWC, Jaeger-LeCoultre, Vacheron Constantin, Panerai, A. Lange & Söhne, Roger Dubuis. Due segmenti del suo portafoglio che hanno permesso al titolo, quotato alla Borsa di Zurigo, una performance unica. Nessuna flessione in un 2024 che ha visto tutti gli altri (fatta esclusione per il Gruppo Prada) soccombere con poche speranze di una ripresa a medio o breve termine. Mentre le vendite nella Cina continentale, a Hong Kong e a Macao sono crollate, come per chiunque altro; le vendite di gioielleria, in particolare per Cartier, sono cresciute in Corea del Sud, in Medio Oriente e in Europa dove i turisti provenienti da il Nord America hanno ampiamente compensato il crollo cinese. Un segnale che fa riflettere: è giusto identificare l’abbigliamento “modaiolo” con la richiesta di beni di lusso? Siamo probabilmente di fonte a un paradigma che non regge più: il “lusso” identificato come esibizione di capi firmati avrebbe fatto il suo tempo.
Chloè: la moda che unisce lusso e comodità
Alaïa e Chloè sono dunque le due stelle nel segmento abbigliamento di questa holding. Chloè è stato acquisito nel 1985. Da allora alla direzione artistica si sono alternati dieci designer tra cui Martine Sitbon (1987-1992); Stella McCartney (1997-2001); Karl Lagerfeld(1966-1983); Phoebe Philo (2001-2006); Gabriela Hearst (2020-2023); sino ad arrivare all’attuale Chemena Kamali, designer di origini iraniane dal 2023 alla guida di un brand di cui sta attualizzando i presupposti stilistici. Fondato nel 1952 da Gaby Aghion, stilista e imprenditrice egiziana, Chloè è stato uno dei primi brand a proporre un prêt-à-porteraccessibile, pur mantenendo un livello di alta artigianalità. Aghion progettava sin da allora abiti che univano lusso e comodità, secondo un concetto che ha poi avuto un impatto significativo sull’industria della moda. Questa femminilità disinvolta percorre anche gli abiti presentati lo scorso 6 marzo a Parigi insieme ad accessori per niente irrilevanti ma mai forzarti.

Alaïa, grazie a Richemont ha perseguito l’artigianalità
Richemont ha acquisito il brand Alaïa solo nel 2007. Un’acquisizione che ha consentito al suo fondatore, Azzedine Alaïa, notoriamente allergico alle regole del marketing, di perseguire l’artigianalità tipica del suo lavoro di formidabile couturier. Quando Azzedine Alaïa, tunisino naturalizzato francese, scomparve nel 2017 la scelta del suo successore, data la grandezza e il prestigio del suo nome, si è rivelata un affaire complicatissimo. Nel 2021 la direziona artistica è stata affidata al belga Pieter Mulier. Con un background in architettura, Mulier aveva lavorato sino ad allora a fianco di Raf Simons presso case di moda come Jil Sander, Christian Dior e Calvin Klein. Mulier è riuscito nell’impresa di convince tutti.
Nella collezione presentata Parigi lo scorso 6 marzo, i modelli si muovevano attraverso un labirinto di sculture frammentate e consumate dal tempo, opere dell’artista olandese Mark Manders (Paesi Bassi, 1968). Tre look scultorei con cappucci a pouf hanno aperto lo show. Mulier ha proposto volumi scolpiti per corpi femminili avvolti in tessuti innovativi: confermando così la sua capacità di reinterpretare i fondamentali della maison. I materiali sono stati il punto focale della collezione: tessuti elasticizzati, pelle trattata e lana strutturata si sono combinati per creare silhouette insieme avvolgenti e scultoree. La palette cromatica ha oscillato tra il nero profondo, il mou, il bianco avorio e il grigio antracite, con accenti di rosso scuro e verde bosco per creare un contrasto visivo. Le tre opere di Manders non erano state messe lì per caso.
Aldo Premoli
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