
Se la vis radicale e decostruttivista dei cosiddetti “sei di Anversa” sembra ormai lontana, in un sistema della moda che si definisce in scelte e ragioni sempre più commerciali, rimane viva l’aura, ma anche l’approccio e il metodo, di veri e propri miti della contemporaneità come Martin Margiela. Partendo proprio dall’eredità dei creativi belgi, che tra gli Anni ’80 e ’90 hanno ridefinito l’idea di moda, ogni anno il MoMu – Museo della Moda di Anversa – guidato dalla storica direttrice Kaat Debo – presenta un ricco programma culturale, che rilegge le collezioni attraverso questioni e visioni del mondo contemporaneo, riuscendo a sviluppare anche una riflessione sulle nuove generazioni (come testimonia anche l’installazione Khayal dedicata a Jan Jan Van Essche).

La mostra “Fashion & Interiors. A Gendered Affair”
Nella nuova mostra appena inaugurata e in esposizione fino al 3 agosto 2025, Fashion & Interiors. A Gendered Affair, la curatrice Romy Cockx esplora la relazione tra moda e interni domestici, attraverso la lente della questione di genere. Il tema è vastissimo, ma anche grazie al progetto di allestimento del duo di architette Altu Space la curatrice definisce un percorso attraverso interessanti tagli, prospettive e connessioni inaspettate che offre una visione sul tema in qualche modo aperta e porosa, che genera una riflessione che va oltre la mostra.
Partendo dalla ritrattistica diffusa nella seconda metà dell’800, la figura femminile, attraverso abiti e gioielli, è l’espressione più diretta della ricchezza della nuova borghesia e delle conquiste del capitano d’industria, che spesso appariva invece al contrario in un rigoroso suit. Nei sontuosi interni dipinti da Alfred Stevens, dove le nuove produzioni industriali si combinavano alle maestrie tessili artigianali, la figura femminile sembra quasi scomparire tra frange, drappeggi, velluti, scialli cachemire, come parte di una messa scena, di una sceneggiatura già scritta. Così quella “stanza tutta per sé”, come l’aveva definita Virginia Woolf, a volte poteva diventare una prigione, la condanna definitiva a un ruolo domestico.

Forme e materiali nella mostra “Fashion & Interiors. A Gendered Affair”
Nel gioco mimetico tra scenografia domestica e abito, sono poi forme e materiali, di mobili e oggetti per la casa, come una tappezzeria o persino la copertura avvolgente di un cuscino o di un piumone, a ispirare collezioni e pezzi iconici rimasti nella storia, di designer come Viktor&Rolf, Dries Van Noten, John Galliano, o tra i più giovani Marine Serre e Craig Green.
Una delle sperimentazioni concettuali più forti è quella sul senso di nomadismo, migrazioni e bisogno di possedere una casa del fashion designer turco cipriota Hussein Chalayan. Dedicata alla sua storia personale ma anche alla guerra in Kosovo, la collezione performance Afterwords del 2001 trasforma mobili in abiti da indossare, tra cui il famoso vestito-tavolino, ragionando sul senso stesso dell’abito come luogo dell’abitare.

Il legame moda e architettura nella mostra “Fashion & Interiors” ad Anversa
La parte più complessa e intrigante della mostra si sviluppa nella rete di relazioni e scambi tra moda, design e architettura, e nei rapporti professionali o personali tra musa e creativo che, riletti con gli occhi delle contemporaneità, risultano spesso ambigui, sbilanciati, e in cui emergono questioni e letture legate al genere.
L’esposizione permette di riscoprire il lavoro sulle arti applicate della coppia di artisti Henry e Mary Van de Velde, protagonisti dell’Art Nouveau belga, che portarono a Bruxelles la rivoluzione nel messaggio di Morris e delle Arts & Crafts. Nella visione di un rinnovamento totalizzante, che pone le radici di quello che sarà poi il movimento moderno, la progettazione arriva fino all’abito per Mary Sèthe, come parte di un’idea di progetto. Nello stesso modo, agli inizi del ‘900, l’architetto Josef Hoffmann sentì il bisogno di creare il look giusto per Suzanne Stoclet, proprietaria dell’omonimo palazzo di Bruxelles, dopo averla vista indossare Paul Poiret, che risultava in contrasto con la sua idea di opera totale, da cui nacque la fortunata produzione di tessuti e abiti della Wiener Werkstätte. Il percorso di Cockx mette in luce questi giochi di rimandi tra architettura, ricerca tessile e capi d’archivio, attraverso documenti, fotografie originali ma anche mobili e oggetti, come un cappotto realizzato da Poiret con una fodera con un disegno di Hoffman: è l’influenza dello stesso architetto viennese a stimolare l’idea della progettazione di una linea per la casa firmata da Paul Poiret, Martine, un’intuizione seguita all’inizio degliAanni ’20 da Jeanne Lanvin con un primo progetto di lifestyle. Vienna ritorna anche nella casa di moda delle sorelle Flöge, che volevano riformare le forme dell’abito, e in particolare quelli realizzati da Emilie Flöge, che furono poi celebrati e ritratti da Gustav Klimt.

Le figure femminili nella mostra “Fashion & Interiors”
Anche nel movimento moderno le figure femminili sono rare, non considerate al pari dei colleghi uomini. Riemerge così la storia della progettista e pioniera del design Lilly Reich, e di come la passione per la moda la portò a diventare la mente dietro molte delle più celebri creazioni di Mies Van der Rohe, creando oltre a spazi trasversali creati da panneggi e tende, alcuni tra i pezzi più iconici del design del 900, come il famoso Barcelona Daybed. Purtroppo l’archivio della Reich è andato disperso ed è difficile ricostruire quanto del suo lavoro sia stato poi attribuito a Van de Rohe.

I mitici stilisti di Anversa nella mostra “Fashion & Interiors”
L’ultima parte della mostra è dedicata ai designer più vicini alla recente storia di Anversa, portandoci a scoprire come l’acquisto e la ristrutturazione da parte della designer Ann Demeulemeester e del fotografo Patrick Robyn, della cosiddetta Maison Guiette – disegnata tra 1926 e il 1927 da Le Corbusier per l’artista René Guiette – sia stata fondante per definire l’identità e lo stile della fashion designer belga. Altra scoperta è sullo stilista Raf Simons, che ha realizzato la sua tesi di diploma progettando degli incredibili mobili a forma di corsetto.
La parte più emozionante della mostra – che esce anche fuori dalle mura del museo con una residenza e una installazione nello spazio Vitra curata dalla designer Meryll Rogge – è sicuramente la possibilità di immergersi in uno spazio che rappresenta al meglio la visione del vero maestro della decostruzione, Martin Margiela. Quel “whitewash”che ha così influenzato la creatività degli ultimi trent’anni – generando una forma di feticismo verso il suo lavoro – permette di smaterializzare tutto quello che si è osservato finora all’interno dell’esposizione. Realizzato dallo stesso Martin, questo spazio emozionale ci permette di entrare nel suo studio, dove il bianco è la dimensione che rimette insieme e sullo stesso piano, un processo che unisce abiti, fotografie, cimeli e graffiti.
Alessio de’ Navasques
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