La navigazione in rete è un fatto solitario, privato. Quale che sia il luogo da cui decidiamo di inoltrarci nei meandri della Rete – la camera da letto, lo studio, l’ufficio, il bar, la strada, l’aeroporto –, navigare ci isola dal mondo esterno. E ci rinchiude in uno spazio visivo che ha le dimensioni dello schermo. L’evoluzione recente di Internet, con l’emergere dei siti di social bookmarking e microblogging, ha permesso di socializzare sempre più la nostra navigazione, consentendo a chi lo desideri di seguire le tracce del nostro viaggiare nell’arco di una giornata, tra Delicious, Facebook, Twitter e chissà cos’altro. Ma lo spazio della navigazione non è cambiato, e il nostro pubblico rimane invisibile, aldilà dello schermo.
La volontà di sfondare questo limite invalicabile ha spinto, qualche anno fa, la curatrice francese Anne Roquigny a immaginare la pratica del “Web-Jaying”, e a sviluppare, con l’aiuto dell’artista e programmatore Stéphane Kyles, un software apposito. Nella sua forma attuale, il programma consente al WJ di controllare tre computer, e tre differenti finestre del browser, da un’unica piattaforma di comando. In questo modo, la navigazione diventa una live performance, eseguita di fronte a un pubblico “guidato” in rete dalle scelte, i gusti, il ritmo e le idiosincrasie del WJ.
Il formato ha avuto successo, con decine di presentazioni organizzate dal 2005 a oggi; e nel 2009 è andato incontro a una ulteriore evoluzione, con l’organizzazione, a Parigi, del primo WJ-Spots: una tavola rotonda sulla creazione in rete, in cui i relatori sono invitati a provvedere i link visitati, durante il loro intervento, dal webjay. Recentemente riproposto all’iMAL di Bruxelles, il formato è ancora perfettibile (soprattutto nella relazione tra WJ e relatore), ma costituisce un’occasione unica per guardare, una volta tanto, al di là dello schermo. Dove stanno le persone.
Domenico Quaranta
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #5
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