Her. O come innamorarsi del proprio Sistema Operativo
I sentimenti ai tempi degli update tecnologici. Spike Jonze, in concorso al Festival del Film di Roma, focalizza le attenzioni del pubblico e della critica, non solo perché al seguito porta Joaquin Phoenix (pazzo e irriverente come al solito), Rooney Mara e Scarlett Johansson. Ma perché il tema è più che mai all'ordine del giorno.
Diverso dai soliti film sul futuro, con quegli scenari scopici postmoderni scuri e inquietanti, in Her di Spike Jonze l’ambiente (una Los Angeles pulita, accogliente e onesta) è luminoso, caldo e affettuoso. Ma, in una cornice così, ancora di più emerge la solitudine e la tristezza degli individui, la loro paura a entrare in connessione reale gli uni con gli altri, sempre filtrati da schermi, ologrammi e diavolerie tecnologiche ormai integrate nel sistema di comunicazione contemporaneo.
Così il film parte con Teodore Twombly che, reduce da una storia molto importante, acquista un nuovo sistema operativo, incuriosito dalle sue potenzialità intuitive. Si tratta di Samantha, che sarà presente lungo tutto il film solo come assenza, interpretata dalla suadente voce della Johansson. Tra i due protagonisti inizia una relazione che sfocia in vero e proprio amore, con tutte le possibili declinazioni che questo comporta, compreso l’utilizzo da parte dell’Os di un avatar umano, che rimane muto poiché solo simulacro fisico di una personalità artificiale.
Her lancia una riflessione profonda sul nostro essere umani ai tempi delle supertecnologie, ma anche semina il dubbio sull’evoluzione a cui noi stessi siamo esposti. Il primo rapporto sessuale tra il protagonista e Samantha è sublimato da un buio che, oltre a reintegrare il concetto di romanticismo e idealizzazione amorosa, pone quesiti sulle modalità e i principi su cui oggi si instaura una relazione. La bellezza oggi è un dato acquisito, alla portata di tutti, dunque non è più un valore, il sesso anche è alla portata di tutti, dunque non è più il fine. Privi ormai della consistenza corporea e del desiderio proibito, cosa ci resta? Quali esigenze cerchiamo di soddisfare con una relazione?
Il mondo descritto da Jonze ha già superato il razzismo in tutte le sue forme, è un mondo in cui esiste ed è forte il sentimento dell’amicizia, in cui si può uscire a coppie anche quando uno degli addendi è un “apparato tecnologico intuitivo“, ma dove, nonostante le intenzioni, ognuno sta solo in mezzo agli altri.
L’incipit potrebbe ricordare Sim1 di Andrew Niccol (il regista di Gattaca, per intenderci), ma l’atmosfera assomiglia di più a quella del romanzo Il gabbiano Jonathan Livingstone. Chiude infine con un dolceamaro senso di vuoto e di abbandono e la sensazione di una felicità frustrata a priori.
Ci siamo noi in quella pellicola e quando le luci in sala si accendono ognuno sta già digitando qualcosa sul proprio smartphone. Il film riunisce molti dei creativi collaboratori di lunga data di Jonze, tra cui lo scenografo K.K. Barrett, il montatore Eric Zumbrunnen e il costumista Casey Storm, che avevano già lavorato insieme in Nel paese delle creature selvagge, Il ladro di orchidee ed Essere John Malkovich. Alla consueta squadra si uniscono il direttore della fotografia Hoyte Van Hoytema (La talpa) e il montatore Jeff Buchanan (il documentario televisivo della HBO Tell Them Anything You Want: A Portrait of Maurice Sendak co-diretto da Jonze). Le musiche sono composte dagli Arcade Fire, con brani aggiuntivi di Owen Pallett.
Federica Polidoro
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