Terroristi alla PlayStation
Il safety check lanciato da Facebook, l’hashtag #porteouverte su Twitter, gli scambi di messaggi tramite la PlayStation. Da una parte e dall’altra, vittime e carnefici usano la tecnologia in maniera alternativa e smaliziata. L’ennesima conferma negli attentati di Parigi. E allora dove sta il loro “fondamentalismo”?
A partire dalla notte di venerdì 13 novembre, gli attacchi avvenuti a Parigi sono balzati agli onori della cronaca internazionale in modo pressoché istantaneo: dai live update delle principali testate a livello mondiale – Le Monde, Reuters, The Guardian e via dicendo – o proprio seguendo hashtag e timeline su Twitter, è stato un rincorrere frenetico di aggiornamenti (e smentite) circa quanto stava accadendo nella capitale francese. Terminato anche l’assedio al Bataclan, dichiarata ufficialmente la morte di tutti gli attentatori coinvolti nelle diverse azioni violente, alla breaking news è andata sostituendosi la ricostruzione dei fatti e, con essa, la speculazione più o meno approfondita sulle cause di questa “guerra”.
Secondo alcuni, imputabile a un’irriducibile differenza tra una delle maggiori religioni monoteiste della storia e la società occidentale – con ciò sottintendendo, in modo neppure troppo velato, che i milioni di musulmani “occidentali” siano tutti potenziali terroristi; secondo un’uguaglianza che, se la applicassimo ai cittadini di fede ebraica ritenendoli per ciò stesso responsabili delle violazioni dei diritti umani compiute talvolta da Israele nel corso del conflitto sulla Striscia di Gaza, verrebbe giustamente tacciata di antisemitismo.
Secondo altri, le ragioni degli attentati terroristici di matrice fondamentalista sono da ricondurre a un più generale “scontro delle civiltà”, riprendendo più o meno consapevolmente alcune delle tesi espresse nell’omonimo libro del 1996 da Samuel P. Huntington. Abbiamo però la sensazione che, nella versione “popolare” della visione di Huntington, venga minimizzato proprio uno dei maggiori cardini del suo discorso: la non equivalenza tra Occidente e modernizzazione.
Se le innovazioni industriali e tecnologiche sono infatti uno dei baluardi della società di cui facciamo parte, questa dimensione meta-materiale della nostra cultura non è più nostra esclusiva. Anzi, in questo breve excursus cercheremo di mostrare come i media digitali vengano non solo utilizzati da ambo le “civiltà”, ma addirittura siano gli integralisti ad averne sviluppato un superiore impiego tattico. A tal proposito, ci concentreremo su una serie di casi in cui il ricorso a Internet, social network e sistemi di comunicazione digitale è stato motivato dall’esigenza di raggiungere un obiettivo concreto, invece che per esprimere il proprio sentire o un’adesione a un qualche sistema di valori condiviso.
SOCIAL NETWORK A SOSTEGNO DELLE VITTIME DI PARIGI
Già nel corso della notte in cui avvengono i diversi attacchi, per iniziativa di alcuni utenti su Twitter viene creato l’hashtag #porteouverte (in francese, “porta aperta”), a segnalare la disponibilità di alcuni residenti a Parigi a ospitare coloro che si trovano per strada o lontani da casa, proprio quando diversi luoghi pubblici sono interessati da esplosioni e sparatorie.
L’iniziativa è davvero lodevole, non soltanto sul piano simbolico ma per la capacità – già vista anche in altri frangenti di emergenza – di generare un meccanismo “virale” virtuoso, dove offerta e domanda sono mosse da un autentico senso di responsabilità civile; prima ancora che specialisti vari della comunicazione online possano intervenire e mediare (vedremo tra poco con quali limiti), il processo si autorganizza grazie alla partecipata condivisione degli obiettivi.
Già in questo caso, però, l’“intelligenza collettiva” ha nell’assenza di coordinazione tanto un vantaggio quanto un limite: quanti hanno davvero aperto le porte di casa propria, nella notte in cui per Parigi si aggirano tanto le vittime quanto i terroristi? Il quesito emerge leggendo per esempio un articolo di Al Jazeera America, che riporta alcune testimonianze sulle difficoltà oggettive di concretizzare nella realtà gli intenti dell’operazione digitale.
In questo senso, la successiva iniziativa di Facebook si dimostra di certo meglio organizzata, e organizzabile, dato che segue un modello top-down. Parliamo della creazione di un Safety Check (ancora, sempre nel cuore della stessa notte, con tempi quasi istantanei di risposta agli eventi) perché fosse possibile, a chiunque si trovasse a Parigi – compresi i turisti, come i professionisti interessati in quei giorni proprio da Paris Photo – notificare tramite il social network la propria posizione, ma soprattutto rassicurare parenti e amici sulle proprie condizioni. Lo strumento ha un potenziale notevole nella possibilità di gestire meglio un’emergenza da parte delle autorità: nel caso di Parigi è stato utilizzato da oltre 4 milioni di persone in 24 ore e recepita da un numero esponenzialmente maggiore di utenti; milioni di individui, cioè, che con un tool do-it-yourself hanno evitato di intasare i canali di comunicazione di ambasciate, centrali di polizia, presidi ospedalieri e via dicendo, di fatto assegnando priorità alla gestione delle emergenze reali.
I PUNTI CIECHI DEL VILLAGGIO GLOBALE
Se a Parigi il Safety Check ha funzionato così bene – come d’altronde era accaduto per tutte le catastrofi naturali in cui è stato attivato, dal terremoto in Giappone del 2001 – perché non impiegarlo già il giorno precedente a Beirut, colpita da un doppio attacco terroristico? Se lo sono chiesti in molti, a cominciare da alcuni utenti libanesi. Se la risposta di Zuckenberg non è tardata ad arrivare, di fatto la scelta – reagire o no, o con quale intensità – fa pensare a un doppio registro: se 129 morti contano più di 42, questo lo si può sapere a posteriori dopo che l’elenco delle vittime viene ufficializzato; nel mentre, l’attezione di Facebook – e del mondo occidentale in generale – si rivela essere molto più selettiva e spietata delle stesse statistiche.
Analisi e approfondimenti, infatti, smentirebbero una volta per tutte il sentimento popolare per cui progresso tecnologico e civiltà occidentale sono fenomeni in relazione biunivoca. La barbarie dell’integralismo islamico – inteso, è bene ricordarlo, come fenomeno politico che dalla teologia musulmana prende le mosse, senza essere suo coestensivo – poggia su un substrato organizzativo che ricorre spesso e volentieri ai risultati della modernizzazione occidentale. E non ci riferiamo soltanto ad armamenti ed equipaggiamento, anzi.
Si ha notizia certa dell’utilizzo di Internet da parte dei terroristi non soltanto per fini di propaganda – anche a scopo intimidatorio nei confronti del mondo occidentale, a cui uso e consumo vengono girati e messi online video di esecuzioni capitali, torture e attacchi così “teatralizzati” da far intuire che ci sia dietro una vera e propria regia: oltre al reclutamento di guerriglieri e al finanziamento internazionale delle stesse missioni, negli ultimi anni le tecnologie digitali sono state utilizzate anche per la formazione degli stessi terroristi, tramite la condivisione su scala globale di manuali e video tutorial che istruiscono – letteralmente – i fidelizzati alla causa sulla preparazione di bombe artigianali, la manutenzione delle armi e addirittura le tattiche e le strategie.
Di più, SITE Intelligence Group dimostra come persino il concetto – ancora piuttosto “avveniristico” in Italia, per fare un paragone – di edutainment sia stato fatto proprio dai terroristi, con la notizia di uno jihadista che realizza versioni “alternative” del videogioco Flappy Bird, ambientandolo di volta in volta in zone di conflitto quali Iraq e Siria.
Proprio in seguito agli attacchi di Parigi, infine, è emersa l’ipotesi che la più diffusa delle console di gioco nel mondo, la PlayStation 4, sia stata utilizzata dai terroristi per comunicare tra loro e pianificare le azioni, eludendo la sorveglianza cibernetica da parte dei vari servizi per la sicurezza nazionale. Il fatto che una simile eventualità venga presa ora in considerazione, a dispetto della possibile sorpresa che genera presso molti di noi occidentali, la rende quantomeno realistica.
LA TANGENZA DELLE CULTURE, NELLA PRATICA
Intanto, abbiamo già fornito sufficienti casi provati dell’utilizzo di media digitali – che noi stessi spesso votiamo al solo svago – da parte di integralisti che, almeno nella percezione generale, ripudiano la civiltà occidentale in molti dei suoi aspetti; non ultimo la decadenza consumista e lassista della nostra società, dove l’individuo si abbandonerebbe ai piaceri della vita invece di seguire la “retta via”. Eppure, gli stessi terroristi utilizzano – e con quale efficacia! – Internet, YouTube e persino i videogiochi.
Il che ci porta a concludere che l’ideologia di cui si fanno portatori è meno fondante – e radicale – di quanto vogliano far credere. Innanzitutto a noi occidentali; forti di un senso identitario che in qualche modo ci rassicura sulla nostra presunta superiorità, finiamo per considerare reali – e incolmabili – quelle fratture che si rivelano molto più frastagliate, alla verifica dei fatti.
Caterina Porcellini
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