Transmediale 2016. Fra testo e immagine (1)
Dal 3 al 7 febbraio scorsi, l’annuale rassegna berlinese intitolata alla cultura digitale ha trasformato la metropoli tedesca nell’epicentro di una riflessione sugli effetti e sulle implicazioni connessi alle potenzialità del digital. In uno scambio costante fra due poli: il testo e l’immagine Ecco qualche considerazione sul primo.
LA POLITICA DEL DIGITALE
Afterglow è il termine che da tre anni sintetizza il grado di confusione in cui le idee, le strategie e gli obiettivi della vasta e differenziata area della cultura digitale si stanno muovendo. Le scelte operate da Transmediale portano alle estreme conseguenze il distacco dall’energia e dall’effervescenza degli esordi digitali: riduzione delle installazioni, eliminazione dell’interattività, nessuno spazio dedicato ai progetti di Net Art né ai “manifesti” legati alla sola tecnologia.
Dopo la luce accecante degli inizi, nei New Media è subentrata una più limitante e riflessiva modalità di lavoro. Conversation Piece è il titolo dell’edizione 2016 e richiama l’espressione usata spesso nella storia della pittura per indicare i quadri che ritraggono gruppi di persone sullo sfondo di salotti, giardini e musei, impegnati in conversazioni disinvolte e private.
Il concetto di partecipazione-azione trova nel festival una gamma di sfumature: Anxious to Act, Anxious to Make, Anxious to Share, Anxious to Secure. La prima di queste è un tentativo di riorganizzare le ipotesi nate in seguito alle contestazioni e alle rivolte degli ultimi cinque anni, restituendo consistenza e struttura a un’area che va dai Podemos a Piazza Tahrir, da Assange a Gezi Park. L’obiettivo di riorganizzare in forme teoriche le energie generate in questi anni è ambizioso, ma le implicazioni politiche sono enormi. Anxious to Act è un tema che richiede un salto verso l’attivismo politico, con cui la rete finora ha fatto i conti solo in parte e che a Berlino è emerso dagli interventi dei relatori, in attesa di una trasformazione delle parole in realtà stabili.
MAKER VS UNMAKER
Anxious to Make ha toccato il tema dei maker e della possibilità di una scorciatoia digitale verso nuove tipologie lavorative. Come sappiamo bene in Italia, dove la parola maker è diventata una magica password che attira masse incredibili di persone nelle feste dell’Arduino Day e delle Maker’s Fair. In anticipo sul Belpaese, grazie soprattutto all’ampio appoggio dato dalle istituzioni alle ricerche digitali, in Germania si critica già ciò che per noi è ancora visto come elemento risolutore di tutti i problemi. E cioè il making. Già sorgono gruppi all’insegna dell’unmaker, che criticano la strumentalizzazione che le istituzioni fanno del fenomeno e in merito al quale presentano un manifesto.
Il panel Disnovation Research ha trattato proprio di questo, considerando – e in parte criticando – la propaganda dell’innovazione come una delle forze ideologiche portanti della nostra epoca. Afterglow oggi significa anche l’acquisita quotidianità degli strumenti digitali, il passaggio dalla bacchetta di Harry Potter dei nuovi media di vent’anni fa all’inserimento degli strumenti digitali nel quotidiano lavorativo e comunicativo. Alcuni dei discorsi fatti in questo festival non sono basati sull’uso ma sulla distanza dall’uso del digitale che solo gli “sciamani” della rete possono decodificare. La responsabilità di tale distacco è soprattutto dovuta alla volontaria complessità degli strumenti progettati dalle grandi aziende – dai “Big Digitals” – per coprire i miliardi di tasse inevase di Facebook e di Google.
ATTIVISMO DIGITAL
Un assemblaggio di documenti e grafici, Atlas of Media Thinking and Media Acting di Sigfried Zielinski, traccia la mappa della straordinaria storia del digitale a Berlino, ricordando il passato d’intenso attivismo politico e il passaggio a un attivismo digitale, ricostruendo il verificarsi delle numerosissime situazioni che favoriscono la ricerca digitale – dal laboratorio universitario alla fabbrica abbandonata e recuperata come centro culturale, dai nascenti studi professionali agli ambienti di attivismo “hacker”.
Una storia che si riflette nel taglio politico sempre mantenuto dal festival e riconfermato quest’anno, sotto il titolo sdrammatizzante di Conversation Piece. Se nel passato la posizione d’isolamento dell’area digitale era un segnale di forza, di capacità di sfuggire ai controlli istituzionali, oggi il festival esprime la volontà di creare uno spazio di opinione organizzato e in grado di influenzare l’istituzione nel campo del digitale, al di là degli attivisti già operanti all’interno delle strutture universitarie.
Concentrarsi su questo compito, dare spazio a realtà grandi o piccole purché fortemente attive creerà una new wave di attivismo? Di certo c’è la presenza straripante di un pubblico che fa code interminabili per affrontare tematiche complesse, che si siede a discutere sull’erba artificiale predisposta nella Hall. La separazione quasi completa fra teoria/testo e immagine/azione rende il festival un doppio speculare dove le cose si vedono in negativo, “come in uno specchio”. Di qui la necessità di un seguito dedicato solo all’immagine.
Lorenzo Taiuti
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