Il ritorno della realtà virtuale. Anche alla Biennale di Berlino
L'opera d'arte totale colpisce ancora, stavolta in versione sci-fi. Dopo un periodo di declino, torna prepotentemente alla ribalta la realtà virtuale, con tante nuove soluzioni e applicazioni. L'opera più chiacchierata della Biennale di Berlino, in corso in questi giorni, è proprio un'opera immersiva, da guardare con un visore Oculus Rift.
IL GRANDE FRATELLO È ARRIVATO?
Una folla di persone sedute in una grande sala. Ognuna indossa un visore per la realtà virtuale; i loro corpi sono qui, ma i loro occhi e la loro mente sono in un altrove che non possiamo vedere. In mezzo, nello spazio del corridoio, avanza con passo svelto e sguardo deciso Mark Zuckerberg. Jeans e maglietta d’ordinanza, indossati sopra un largo sorriso rassicurante. È questa l’immagine che lo scorso febbraio ha fatto il giro del mondo, suscitando stupore, ansia e preoccupazione. C’è chi ha parlato di immagine rivelatoria e allarmante; si sono sprecate le citazioni del Grande Fratello e di tutti i classici della letteratura e del cinema di fantascienza nelle sue derive più distopiche.
La foto, scattata al Samsung Mobile World Congress di Barcellona, ritrae il fondatore di Facebook mentre si avvia a salire sul palco per raccontare al pubblico le possibili applicazioni dei dispositivi per la realtà virtuale, in primis Oculus Rift, che la sua compagnia ha acquistato due anni fa per l’esorbitante cifra di 2 miliardi di dollari. Anche se il discorso di Zuckerberg, che pochi si sono presi la briga di ascoltare, non era poi così preoccupante, la reazione alla diffusione della fotografia ci dice molto su quanti timori ancora aleggino intorno a una tecnologia come la realtà virtuale.
L’AMBIGUITÀ DEI DEVICE
Influenzati da decenni di cinematografia catastrofica sul tema (basti pensare a film come Matrix, Il Tagliaerbe e Strange Days) siamo infatti portati a interpretare la realtà virtuale come un pericoloso sostituto della nostra esperienza del mondo, qualcosa di falso e ingannevole, che ci rende burattini in mano a forze superiori e maligne. Ma non sono soltanto film e libri a influenzarci; è anche la conformazione degli stessi device. I visori, guardati dall’esterno, sembrano più accecarci che aprirci nuove visioni, come invece fanno. Ci fanno sembrare ciechi e inermi, persi in un universo che non possiamo controllare e magari, in un lontano futuro, neanche più distinguere da quello da cui proveniamo originariamente.
Ma mentre l’immaginario collettivo si sforza di fare i conti con una tecnologia che ancora spaventa, la ricerca nei laboratori e nelle startup di tutto il mondo è in pieno fermento. La realtà virtuale, che può già vantare svariati decenni di storia, dopo essere caduta nel dimenticatoio – un po’ per i costi eccessivi, un po’ per la rozzezza dei dispositivi – è oggi protagonista di un grande revival. Sono moltissime le aziende impegnate su questo fronte, dai colossi come Facebook, Google (che ha lanciato la versione democratica dell’Oculus, il Cardboard Viewer, e Tilt Brush, una app per dipingere in 3D,) e Samsung, fino a startup più piccole ma agguerrite come Magic Leap. Quest’ultima sta mettendo a punto un dispositivo che promette di cambiare completamente le carte in tavola, spostando l’attenzione dalla “virtual reality” alla “mixed reality”: non una realtà alternativa a quella che conosciamo, piuttosto un’unione di mondo fisico e mondo simulato, da godere come una realtà unica e indivisibile.
Ma non sono soltanto le aziende tecnologiche a essere in fermento: anche gli artisti si sono tuffati con entusiasmo in questo rinnovato filone di ricerca. Se il termine stesso “realtà virtuale” può essere ricondotto addirittura agli Anni Trenta, quando Antonin Artaud lo usava per descrivere le capacità mimetiche del teatro, le sue applicazioni pratiche con la tecnologia sono iniziate negli Anni Sessanta e Settanta con artisti come Myron Krueger, David Em e Jeffrey Shaw, per continuare con grande entusiasmo negli Anni Ottanta e poi lentamente scomparire dai radar.
LA RISCOSSA DELLA REALTÀ VIRTUALE
Da qualche anno, però, il sipario si è riaperto anche per l’arte “virtuale”, a partire dalle sperimentazioni con la cosiddetta “realtà aumentata” che imperversano già da un po’. Dispositivi come l’Oculus Rift e il Tilt Brush, però, sembrano aprire una nuova epoca per questo settore. Jon Rafman, che lo scorso anno ha realizzato una mostra ad alto tasso di “immersività” alla Zabludowicz Collection di Londra e che sta presentando proprio in questi giorni una nuova opera in realtà virtuale alla Biennale di Berlino, ha dichiarato in un’intervista al sito web Art.sy: “Nella vita di tutti i giorni abbiamo a che fare con un sovraccarico sensoriale continuo, per cui abbiamo bisogno di questa esperienza totalizzante della realtà virtuale per riuscire a provare una piena sensazione dei vertigine di fronte a un’opera d’arte […]. Non si tratta di una fuga dalla vita, ma di creare una sensazione qualitativamente nuova. Questo è il suo aspetto più radicale”.
Il mito dell’opera d’arte totale, insomma, che ossessiona gli artisti dalla notte dei tempi, torna ancora una volta protagonista. Come disse una volta Dan Graham: “Gli artisti sono tutti uguali. Sognano di fare qualcosa che sia più sociale, più collaborativo e più reale dell’arte”.
Valentina Tanni
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #31
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