Musei e comunicazione. Quali strategie?
Oltre le mode e gli stereotipi, la comunicazione riveste un ruolo sempre più importante anche in ambito museale. Ma quali sono gli strumenti e le attitudini da mettere in campo per non incappare in soluzioni posticce o in luoghi comuni dannosi? La parola all’esperta.
UN TEMA DELICATO
Il tema musei e comunicazione si muove con una frequenza a picchi, tanto che talvolta si direbbe un trending topic sponsorizzato. Sbuca dappertutto, chiunque ne può parlare e – un po’ come per altro, dai vaccini all’immigrazione – ha finito per generare tifoserie rigide, in overdose da stereotipi, pronte a menar le mani indicando come imperdonabili le incompetenze degli uni o degli altri. Dovremmo guardare con tolleranza e curiosità alle esperienze nostrane, più o meno riuscite, spesso esito donchisciottesco e talentuoso di “sfide” pionieristiche, raccolte individualmente e condotte sperimentalmente controvento. Tentativi non dogmatici, esordi, testimonianze oramai da storicizzare.
NON SOLO SPERIMENTAZIONE
Ora mi metto comoda per dare spazio a un puntino sulla “i”. Sperimentazione sì, ma ci sono alcuni punti che sono smarcati, davvero: se sei esperto (esistono davvero?) in comunicazione (e poi di che parliamo? Di Twitter? Di piedoni sul Corriere? Di comunicati stampa?) non è immediato travasare questa competenza tout court, in autonomia, in un’istituzione museale, dove “comunicazione” è quasi tutto (per me sì): la didascalia – verbale non verbale –, l’allestimento, il catalogo, la ricerca e le sue direzioni, i tweet, i post su Facebook, le app (beh, sì), gli interventi alle conferenze (quelli veri, che rispondono a una call for paper vera), l’interpretazione della trasparenza e, non ultimo, il rispetto dell’onestà intellettuale. È una professione che richiede competenze specifiche.
ELOGIO DELL’IBRIDO
Quale personaggio epico incarna tutte queste doti? Non lo abbiamo sulla carta, col pedigree, o i bolli, ad oggi. Comincerei allora col fare un elogio dell’ibrido per biografia, destino, attitudini. Strade inconsuete, un po’ vischiose, come la loro lettura. E per un domani? Come si potrebbe creare? Le università, di diverse tradizioni e intenti, cominciano quantomeno a concepire – chi più chi meno – che, se sei un esperto del patrimonio, dovrai avere familiarità con wifi, crowdfunding e, forse chissà, perfino ROI. E si attrezzano di conseguenza. Già… e poi? Come si incrociano profili, competenze, esperienze, processi e gerarchie? Chi è in grado, all’interno delle istituzioni universitarie tradizionali, di progettare corsi specifici, e approfonditi, se quella professione non esiste ufficialmente? E chi saprà coglierne in ambito museale un bisogno consapevole?
PAROLA D’ORDINE: CONSAPEVOLEZZA
Per fare un passo avanti, nella ricerca di senso, dismetterei intanto gli incongrui paragoni con istituzioni internazionali che, con cadenza da erario, compaiono sulla stampa nostrana: “Sai quanti follower ha il MoMA e quanti i miserrimi Uffizi?”, Ecco, sì, lo sappiamo, ma il MoMA o il Met non sono confronti sensati, a meno di considerare la loro storia, e le decine – quando non centinaia – di persone che lì si occupano di “comunicazione” nelle sue iridate sfumature. Ho negli ultimi mesi notato il ricorrere di una parola/concetto sui siti dei musei di ambito anglosassone: “relevant”. Però sai, han cominciato con Alfred H. Barr Jr…. Propongo di voltare tutti pagina, identificare modelli locali congrui, soluzioni ibride, in fieri continuo, assolutamente non di copertura. I musei sono organismi complessi: lavoriamo perché abbiano una crescita biologica armonica, verso una consapevole pienezza, ciascuno la sua, e non ci diano l’impressione di aver subito un pessimo lifting o un bizzarro innesto di protesi, frutto di arcani compromessi. Potremmo mettere tutte le forze, mescolate, diverse, preziose al servizio di questo obiettivo, senza muri. (Sento però un’eco… ma non so… svolgo un mestiere senza nome e scrivo un “altro” editoriale).
Maria Elena Colombo
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #33
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