Far conoscere l’arte digitale dovrebbe essere in teoria facile attraverso la Rete, ma l’impermeabilità del sistema dell’arte italiano al digitale non ne rende facile la promozione (a parte i festival e l’attività di centri come la Strozzina di Firenze, che ha già messo insieme video, foto, media digitali e installazioni con ottimo afflusso di pubblico, grazie alle scelte dell’ex direttrice Franziska Nori). Ma l’arte digitale si trova online attraverso i siti degli artisti e attraverso diversi archivi.
L’ESEMPIO DI MAURICE BENAYOUN
Un sito d’artista che consiglio è quello di Maurice Benayoun, artista francese da anni impegnato nell’arte digitale. Nel settore works trovate una selezione di lavori, fra cui Emotion Forecast e Occupy Wall Screens, che fanno parte della serie in progress Mechanics of Emotions, intesa come un gruppo di dispositivi per misurare e raffigurare le emozioni. I due lavori sono passati per un mese sul grande schermo al Big Screen Plaza, spazio pubblico di New York, e in vari festival. Uno dei suoi lavori più interessanti, del 1995, è il Tunnel sotto l’Atlantico che collegava il Beaubourg al Museo d’Arte Contemporanea di Montréal. Questo collegamento telematico scambiava immagini e messaggi dai due punti collegati. Nel 2012 il lavoro diventa Tunnels sotto il Mondo e collega diverse città come San José e Seoul, grazie al miglioramento dei software, che aprono grandi possibilità per comunicare contenuti multimediali. Un percorso che l’ha portato a segnare punti importanti nei diversi aspetti dei nuovi media, come lo spazio 3D del Cave con il bel lavoro Digital Safari, una riflessione sulla guerra vista attraverso i media.
ALLE ORIGINI DEL DIGITALE
Il creatore della net-rivista culturale Rhizome, Mark Tribe, apre la pubblicazione divulgativa della Taschen Media Art con la dichiarazione che i primi lavori digitali erano legati a un livello ancora liminale della tecnologia, cosa che ne comprometteva l’esito. Il che equivale a dire che prima di The Great Train Robbery e di Cabiria (cioè prima del formato industriale) il cinema non esisteva o comunque che la “moving image” non era ancora arte. È invece il momento di rileggere le prime fasi del digitale, malgrado la fragilità delle strutture tecniche del tempo, con interesse nuovo, come facciamo con i primi lavori del cinema e della videoarte. Tenendo conto che queste esperienze sono l’equivalente delle ricerche sul segnale video-elettronico portate avanti da Nam June Paik, Aldo Tambellini e il loro gruppo nel laboratorio The Kitchen di New York negli Anni Sessanta-Settanta.
Lorenzo Taiuti
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #33
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