Musei e digitale. Intervista a Silvio Salvo della Fondazione Sandretto
Al via anche online la rubrica “Museum [digital] matter”, già approdata sul nostro magazine fresco di stampa. La rubrica nasce da un’esigenza di confronto e analisi su esperienze concrete in merito a musei e digitale. Un breviario di idee, che consenta la circolazione e la messa in opera di letture critiche in un campo che è ben lungi dal costituire un sapere consolidato. Un tavolo di elaborazione aperto a differenti interpretazioni.
Le domande rivolte ai protagonisti della rubrica sono quelle che i “museum digital professional” si trovano con ineludibile certezza a dover gestire: on line e off line sono due mondi o uno solo? Cosa ha senso misurare nel digitale e sui social? Cosa significa essere “relevant” per un museo oggi? Quanto conta il suo sviluppo sui canali digitali? Il digitale sottrae attenzione al fisico? Quanto la digitalizzazione delle risorse e dei processi influisce sulla possibile efficacia della comunicazione sui social?
Conoscere le varie declinazioni delle esperienze è un modo per dotarsi degli strumenti adatti a progettare ciascuno la propria dimensione più consona.
L’esperienza di Silvio Salvo, ufficio stampa e Social Media Manager per la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, è un caso di interesse nel panorama nazionale, per indubbia singolarità.
Quale ritieni possa essere il profilo fertile per fare il tuo lavoro? Intendo quali competenze e quali caratteristiche, anche intese come soft skill.
Per svolgere al meglio il lavoro di Social Media Manager è necessario: conoscere bene i contenuti che si devono comunicare; avere buone capacità di copy; essere curiosi; essere aggiornati sui nuovi mezzi di comunicazione; informare la community; interagire con la community; creare la community; guadagnarsi sul campo l’autonomia nella gestione dei canali che si seguono; intercettare i gusti e le passioni del target anche fuori dal campo di pertinenza; immettere nuova linfa nei processi di comunicazione; appropriarsi “dell’immaginario quotidiano” che si trova nei social e utilizzarlo per comunicare il prodotto con un tone of voice adeguato al canale (lo stesso contenuto deve essere diverso se appare sul sito, sulla newsletter, su un comunicato stampa).
Puoi farci qualche esempio?
Se, per esempio, leggo sui social di un museo di arte contemporanea: “Oggi il museo è aperto dalle 12 alle 19” penso: bene, ma non benissimo.
Personalmente faccio attenzione agli elementi che appartengono alla quotidianità e penso che ogni aspetto della realtà che mi circonda possa essere fonte di ispirazione per comunicare i contenuti. Considero Barbara D’Urso un’icona contemporanea al pari di David Foster Wallace, Lionel Messi, Barack Obama, Donald Trump, Pornohub, Thom Yorke, Ed Sheeran, i profughi di guerra, Peppa Pig o Chiara Ferragni.
Nei social cerco di creare uno scenario che superi i confini fra i vari linguaggi: arti visive, pubblicità, tv, musica, cinema, letteratura, giornalismo, social media… È la natura dei social: l’organizzazione “caotica” delle informazioni ti permette di diventare un architetto della parola e dell’immagine. Si possono creare cortocircuiti interessanti. The medium is the mess-age. Siamo nell’era del caos.
Come avviene l’integrazione tra il Social Media Manager e il team della Fondazione? E con i curatori in particolare?
Il gioco di squadra è fondamentale. Puoi essere autonomo quanto vuoi, ma senza un’interazione continua con lo staff, non riesci ad avere una visione completa delle mostre o delle attività che devi comunicare.
I curatori mi spiegano le mostre, la scelta degli artisti, e mi ci fanno appassionare. A quel punto tocca a me declinarli a seconda dei canali di comunicazione. Anche parlare direttamente con gli artisti è utile: con Adrian Villar Rojas (è stato più di un mese in Fondazione) abbiamo parlato di musica (va matto per i Radiohead e i Nirvana), di Maradona, del Papa, di Star Wars… Conoscere le sue passioni mi ha aiutato nella comunicazione del backstage della mostra.
Credi che il contesto del contemporaneo sia una facilitazione? È in qualche modo più naturalmente vicino a social e digital, rispetto, per esempio, a un museo archeologico?
Per la comunicazione di un museo archeologico possiamo attingere da secoli di storia. L’arte contemporanea è qui e ora ed è la memoria di domani. E non dimentichiamoci che per ogni persona che ama l’arte contemporanea, ce ne sono almeno cinque (se non dieci) a cui non interessa o che pensa che non meriti lo sforzo di entrare in un museo. Ma queste stesse persone sanno che tutta l’arte è stata contemporanea. Stiamo vivendo da protagonisti l’arte che verrà studiata dagli alieni quando ci invaderanno. Nel 2430 ci saranno code al Louvre per vedere un’opera che è stata realizzata in questo preciso momento. Un museo di arte contemporanea deve trasmettere anche questo messaggio.
Quale pensi sia il senso dell’utilizzo dei canali social?
Il senso è comunicare le attività e interagire e con il pubblico in maniera più immediata. I feedback (elogi e critiche) che arrivano dai social sono molto importanti anche perché ti danno la possibilità di migliorare i servizi.
Persino tu ti muovi attraverso un piano editoriale? Te lo approvi da solo? Cresce nell’immediatezza di oggi giorno?
Sfatiamo un mito: esiste un piano editoriale. Seguo schemi consolidati che spesso nascono dall’ispirazione del momento: una ragazza che porta a spasso il cane nel giardino davanti alla Fondazione, il sole che si alza dietro l’edificio, un bambino rapito da un’opera in mostra durante i laboratori del nostro magnifico dipartimento educativo, le opere esposte, la tematica affrontata dall’artista, le riunioni con Patrizia Sandretto Re Rebaudengo, la lettura di un quotidiano, le conversazioni con i colleghi durante la pausa pranzo, un film visto la sera prima, una canzone ascoltata in auto, il rancoroso Raz Degan sull’Isola dei Famosi, i sei goal del Barcellona al PSG, L’amica geniale di Elena Ferrante, le serie Black Mirror e Stranger Things, un editoriale sul New York Times, le recensioni di arte contemporanea sulla rivista musicale Rolling Stone, una b side dei Radiohead realizzata per il mercato giapponese, una battuta del Quartetto C’era su Eccezionale Veramente, le inquadrature a Barbara D’Urso, le invettive di Enrico Mentana, gli hater contro Bebe Vio, le telefonate che arrivano a La Zanzara su Radio24, i troll, le urla in piazza nel programma Dalla Vostra Parte, i discorsi dei politici, i clochard bruciati vivi, i commenti sulle pagine FB di Libero, gli editoriali di Selvaggia Lucarelli, i video messaggi di Saviano vanno tenuti nella stessa considerazione. Devi essere costantemente sintonizzato. Se comunichi l’arte contemporanea, non puoi prescindere dall’utilizzare il linguaggio della società contemporanea. I social organizzano la comunicazione in maniera caotica e noi ci adeguiamo. Il caos è equo, come sostiene il Joker. Nella nostra comunicazione tutti sono allo stesso livello. Occorre però fare attenzione: se vuoi raggiungere tutti i target, a volte corri il rischio di non raggiungere tutti i target.
Come valuti tu, e come viene valutato dall’istituzione per la quale lavori, il tuo impegno sui social? Esistono obiettivi dichiarati, misurabili, quantificabili? Elabori una reportistica?
L’impegno sui social è pari all’impegno della Presidente e dei miei colleghi. Se non creassero contenuti di alto livello (mostre, eventi, attività didattiche), il mio lavoro sarebbe inutile. L’obiettivo principale è dare le informazioni utili a far conoscere le nostre attività e fare entrare in testa “Fondazione Sandretto Re Rebaudengo”. Il feedback è positivo. I colleghi e la community apprezzano.
Godi di un mandato molto ampio, che ti riconosce ampia capacità creativa. È sempre stato così? Hai mai dovuto difendere o giustificare la tua linea editoriale sui social? Nessuno ha mai fatto fatica ad apprezzarla?
È sempre stato così. A volte alcuni miei colleghi mi dicono “Non ho capito”, ma gli stessi colleghi accettano di fare la dub dance per la foto degli auguri di natale.
L’intenzione è anche quella di spiazzare. Sono sicuro che chi entra per la prima volta sui nostri canali social sia spaesato. I nostri post prevedono un piccolo sforzo. Devono essere decodificati (e non intendo i post scritti in codice morse quando parlano gli alieni). Alcuni sono più immediati di altri. Ma ripeto, se vuoi intercettare tutti i gusti culturali e le tendenze più attuali, se vuoi stimolare suggestioni, corri il rischio di non essere sempre compreso da tutti.
Secondo te il seguito sui social si traduce in biglietti/visite? E secondo il tuo aiutante Yoda?
Sicuramente sì. È un modo come un altro (mezzi di informazione, sito web, newsletter) di tenersi informati sulle attività della Fondazione.
Il Maestro Yoda, @iodaioda (io sono il suo assistente ) sa già la risposta perché usa la Forza e riesce a vedere il futuro. Dimenticavo: quando un bimbo vestito da Yoda è entrato in Fondazione con la mamma e il papà ci siamo emozionati.
Il tuo lavoro costituisce di per sé una performance vera propria. È voluto, strategico?
È il social network, bellezza! Il tone of voice che utilizziamo sui social rispecchia il linguaggio che troviamo sui social: hater, complottisti, seguaci di Osho, post deliranti di personaggi assurdi, razzisti, avvocati che sponsorizzano le loro pagine e vengono derisi dai potenziali clienti, MASSIMA DIFFUSIONE!111!!!, odio la juve, w la juve, rom rinchiusi in una gabbia, etichette dei vini, selfie con gli occhi grandissimi perché ritoccati con l’applicazione “ingrandisci gli occhi così sembro più bello”, piedi, gattini, elogi ai post della Ceres, l’oroscopo di Brenzsy, gruppi di pervertiti, video che scuotono le coscienze su AJ+…
Come ti muovi nella messa a punto della comunicazione social?
Per capire il mood della giornata, oltre a leggere gli editoriali sui quotidiani, puoi stare venti minuti al giorno su Facebook. Raramente guardo le campagne social degli altri musei (la maggior parte fa un ottimo lavoro). La comunicazione social della Sandretto è efficace proprio perché non è convenzionale, ma è convenzionale se inserita in un ambito più ampio: quello dei social, in cui si creano cortocircuiti e caos e i linguaggi si mixano in un calderone che alla fine della giornata non ti lascia niente se non un argomento di conversazione della durata di un minuto sulle bambine che entrano nella stanza quando il padre rilascia l’intervista alla BBC.
Attingiamo da tutto: dall’arte contemporanea, da Cruciani e Parenzo, da J.M. Coetzee, da Francesco Totti, da Club to Club, da Maccio Capatonda, dai Radiohead, da Vulvia, da Quelo, da Alessandro Bergonzoni, da Arturo Brachetti, da Fantozzi, da Verdone…
E soprattutto cerchiamo di coinvolgere gli altri musei cittadini (fare rete anche sui social è fondamentale) e personaggi che c’entrano poco con la Fondazione: Salvatore Aranzulla, Mario Giuliacci, il Divino Otelma, Temptation Island… Diamo informazioni, creiamo il caos e intratteniamo: infochaostainment.
Il legame con il cinema è un legame con te o con la Fondazione? O con entrambi? o dovrebbe comunque esserci e ne segnali l’assenza?
I meme con personaggi universali (del cinema, della televisione, della pubblicità, della musica) rendono riconoscibile il nostro spazio in Via Modane. Intrattengono e informano. Quello che tento di fare è “creare un immaginario” della nostra sede. Abbiamo la fortuna di avere questa sede meravigliosa, amata dagli artisti che espongono da noi, una parete esterna lunghissima, un “palcoscenico naturale”. Perché non sfruttarla e giocare un po’? A volte è rischioso: i puristi possono non apprezzare un contaminazione così sfacciata, ma (forse) si faranno una risata.
Che libro consiglieresti ai colleghi?
Visto che l’ho “citato” dicendo “The Medium is the Mess-Age” direi Gli Strumenti del Comunicare di McLuhan ma anche Striscia la Tv di Antonio Ricci. Invece se devo semplicemente indicare un buon titolo, il mio libro definitivo è Pastorale Americana. Aggiungo Gioventù di J.M. Coetzee, Istanbul di Pamuk, Il Barone Rampante di Calvino.
– Maria Elena Colombo
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