No, non mi sono sbagliato. La foto da un account Instagram che vedete sopra è stata pubblicata così semplicemente per farla entrare… Dove? Nella griglia delle immagini che di solito commentano questo articolo. Ma, dato che in verticale non ci stava, l’ho girata in orizzontale.
Qualcosa però non funziona: siamo sì abituati a osservare fotografie, quadri, dipinti, immagini, video, film che hanno una scala rettangolare a dominante orizzontale (di solito con un rapporto di 16:9 o 4:3), ma quando si tratta di smartphone, inspiegabilmente passiamo tutti a un rapporto che, se pur resta sempre rettangolare, ha una dominanza verticale.
Non ci si fa caso fino a quando non la si trasgredisce, ma tutti i new media sono governati da questa dominanza, che è in aperta violazione con i canoni delle forme visive da sempre accettate, o almeno invalse in uso dall’epoca dell’invenzione del quadro (su cui dice tutto Victor Stoichita, L’invenzione del quadro, Il Saggiatore, 2004) fino all’attuale fruizione delle immagini su schermo. Difficilmente troverete, anche a cercarlo, un monitor per computer o per televisore verticale, e persino nelle videoinstallazioni più sperimentali, da Eija-Liisa Ahtila a Doug Aitken, quasi sempre la ratio degli schermi (anche se sovente sono più di uno) o delle proiezioni resta orizzontale.
“Il tempo così si spazializza: nello scorrere orizzontale, fluviale, paesaggistico, il prima e il dopo seguono un certo ritmo, una sequenza in movimento che resta riconoscibile”.
Ho chiesto conferma a dei veri esperti, cioè i miei figli adolescenti, che mi hanno puntualmente confermato la cosa, e mi hanno chiarito anche un altro dettaglio: lo schermo del telefono viene messo in orizzontale solo qualora si intenda vedere un video più lungo o addirittura l’episodio di una serie tv, ma mai per consultare i social o scambiarsi messaggi.
Questa violazione, dunque, ha innanzitutto un valore estetico. Qualcosa di nuovo è accaduto nel nostro regime scopico (per usare l’efficace espressione di Pierre Sorlin) e, anche se sembra un dettaglio trascurabile, è come se, a quello che siamo abituati giustamente a chiamare “il paesaggio mediale” – e un paesaggio per definizione è più largo che alto – si fosse aggiunta una dimensione nuova, che “risolleva” le proporzioni, come nei ritratti dei gentiluomini messi in posa all’impiedi, insomma un “ritratto mediale” (spesso i ritratti hanno una ratio inversa rispetto ai paesaggi).
Ma, forse, non si tratta solo di estetica: questo ribaltamento annuncia istanze più profonde, che paiono spingere verso un’inversione dimensionale generale. La verticalità dei dispositivi neomediali, infatti, sembra sostituire una metafora antichissima del tempo, dettata invece dall’orizzontalità: quella, risalente agli esordi della filosofia antica, dello scorrere delle acque di un fiume. Quando, abbastanza ingenuamente, si dice che i new media hanno “mutato il nostro orizzonte” – si afferma qualcosa di vero, poiché essi hanno letteralmente mutato la disposizione verso il mondo che ci ha caratterizzato da sempre. Allo “scorrere” lineare, lungo il filo di un orizzonte che è pur sempre “più largo” dell’altezza a cui normalmente limitiamo lo sguardo, hanno sostituito il “cadere”, lo spiovere di qualcosa che va da un alto (che non vediamo) verso un fondo (che anche ignoriamo). Si tratta di un’inversione particolarmente evidente in Instagram (ma tipica anche di altri social), in cui il susseguirsi dei post ha l’andamento spaziale di un cascare continuo – di una “cascata informativa”, che dà un senso ben più cogente alla definizione di informational cascade (proposta da Andrew Dotey, Hassan Rom e Carmen Vaca, Information Diffusion in Social Media, Stanford University Press, 2011).
“Ma, forse, non si tratta solo di estetica: questo ribaltamento annuncia istanze più profonde, che paiono spingere verso un’inversione dimensionale generale”.
In questo processo inarrestabile, il nuovo si aggiunge imperterrito al vecchio, proprio come in una cascata dove sempre nuova acqua sopraggiunge, pur dando l’idea di una forma continua e quasi immobile. Proprio un artista come Bill Viola, che ha fatto della “cascata” liquida quasi il suo marchio autoriale, è infatti anche uno dei pochi autori di video ad aver impiegato schermi verticali, come presagendo una condizione mediale che oggi ormai conosciamo e frequentiamo tutti.
Il tempo così si spazializza: nello scorrere orizzontale, fluviale, paesaggistico, il prima e il dopo seguono un certo ritmo, una sequenza in movimento che resta riconoscibile; ma nel cascare ogni nuovo si sovrappone al vecchio, in un imperterrito, fragoroso accumularsi senza fine. Seriamente – quale “spazio” occupa Instagram? O anche, dove sono le pagine virtuali del documento Word che sto scrivendo? Una sovrapposizione interminabile diviene la regola anche visiva di un universo informativo in cui non ci si sposta veramente, dove nulla accade nel tempo, ma tutto sembra com-presenziare continuamente riassorbendosi nello spazio di se stesso.
Se – da Platone a Kant – è la dimensione temporale a prevalere su quella spaziale e a sollevare l’interrogativo decisivo (il movimento e la stasi, il passato e il futuro, la vita e la morte), viceversa la nostra ipermodernità vive un tempo “eternato”, congelato, grazie al per sempre della riproducibilità, che si estende in uno spazio divenuto invece contraddittorio, luogo del qui e simultaneamente dell’altrove.
Per parafrasare Agostino all’epoca dei new media, se nessuno mi chiede che cos’è lo spazio, lo so; se me lo chiede, non lo so più.
‒ Marco Senaldi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #45
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