Nella prefazione del catalogo della mostra Astro Noise. A survival guide for living under total surveillance (2016), il direttore del Whitney Museum Adam D. Weinberg scriveva: “L’arte è una possibile risposta alla sorveglianza totale, e non soltanto perché la smaschera; caratteristiche dell’arte come la casualità, l’ambiguità, l’illogicità, l’anarchia, l’imprevedibilità e tutte le operazioni incentrate sul caso sfidano i sistemi oppressivi basati sulla struttura e sul controllo”.
La pubblicazione, ricca di contributi interessanti, ha accompagnato la mostra personale di Laura Poitras ospitata nel museo newyorchese tra febbraio e marzo 2016. L’artista americana, nota internazionalmente per aver diretto il documentario su Edward Snowden Citizenfour, premio Oscar nel 2015, è una delle voci di punta di un vasto movimento internazionale di artisti impegnati nella riflessione sul problema della sorveglianza, della raccolta non autorizzata dei dati e del controllo sempre più sistematico della vita quotidiana dei cittadini reso possibile dall’utilizzo massivo delle tecnologie digitali.
Insiste sul concetto Jacob Appelbaum, hacker, ricercatore e artista: “Per sfuggire alla sorveglianza di massa è necessario adottare l’entropia, anche in senso tecnico. Dal criptaggio dei messaggi all’uso di randomizzatori per indirizzare la navigazione attraverso le reti anonime, l’entropia è essenziale”.
Il tema non è nuovo e sono tante le figure che nel mondo dell’arte, fin dagli Anni Ottanta, hanno affrontato la questione: pensiamo ad esempio al lavoro di Julia Scher, che con la sua installazione Security by Julia (1988) invitava i visitatori di musei e gallerie a sperimentare sulla propria pelle le conseguenze dell’essere “osservati”. Altrettanto importante, negli Anni Novanta, il lavoro dei Surveillance Camera Players, collettivo di performer impegnati nel dirottamento delle telecamere di sicurezza negli spazi pubblici, utilizzate come involontarie testimoni delle loro azioni teatrali e di protesta.
I DATI DIGITALI
La massiccia stretta sulla sicurezza che si è verificata nel post-11 settembre con l’inizio della guerra al terrorismo ha portato però il fenomeno della sorveglianza a livelli esponenziali e la risposta della comunità artistica, soprattutto negli Stati Uniti, non si è fatta attendere. Mentre nei lavori precedenti il focus era quasi sempre sui sistemi di registrazione audio-video (telecamere e microfoni), in questa nuova ondata di progetti il tema centrale sono i dati digitali; quella scia continua di informazioni che ci lasciamo dietro ogni giorno compiendo normali azioni come navigare su Internet, utilizzare il telefono cellulare o pagare con le carte di credito. A questo si aggiungono i progressi della tecnologia, che hanno permesso la realizzazione di nuovi strumenti di monitoraggio: sistemi di riconoscimento facciale, software di analisi dei dati, satelliti con camere ad altissima definizione e droni pilotati a distanza.
Su questi temi ruota il lavoro di Trevor Paglen, impegnato in una ricerca sul tema della visibilità: “La gente spesso dice che le mie opere rendono visibile l’invisibile, ma è un fraintendimento. In realtà quello che faccio è mostrare cosa significhi essere invisibili”, ha dichiarato al New York Times. L’artista americano utilizza speciali attrezzature fotografiche per mostrare come sono fatte le basi militari segrete, le prigioni della CIA in Afghanistan e le stazioni specializzate in intercettazione. Ha persino fotografato la segretissima sede della NSA – National Security Agency, la cui ultima immagine disponibile risaliva agli Anni Settanta.
Simili riflessioni possiamo trovarle anche nelle opere e nei testi di Hito Steyerl, artista e teorica tedesca. Il suo video How Not To Be Seen: A Fucking Didactic Educational .Mov File (2013), presentato alla Biennale di Venezia e poi entrato a far parte della collezione del MoMA di New York, è una riflessione dai toni ironici – la parodia di un tutorial – sulle possibili strategie adottabili per sottrarsi al regime di continua sorveglianza.
DIVENTARE IRRICONOSCIBILI
Una di queste strategie consiste nel rendersi irriconoscibili: usando maschere, trucchi e altri sistemi in grado di confondere i software di riconoscimento biometrico. Hanno lavorato in questo senso numerosi artisti, tra cui Zach Blas, che nel suo progetto Facial Weaponization Suite (2011-14) realizza “maschere collettive” basate sulle caratteristiche facciali di tutte le persone che partecipano ai suoi workshop; oppure Martin Backes, che, ispirandosi ai volti oscurati di Google Street View, ha prodotto un inquietante cappuccio pixelato di nome Pixelhead (2010).
‒ Valentina Tanni
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #45
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