Un autoritratto digitale. La grande installazione di Evan Roth in Florida
Dimmi che siti web hai visitato e ti dirò chi sei. Al MOCA di Jacksonville, in Florida, Evan Roth ha realizzato un'installazione monumentale utilizzando i dati di navigazione archiviati nel proprio browser nell'arco di quattro mesi
In un’epoca in cui la navigazione su Internet è ormai un atto quotidiano per milioni di persone, la lista dei siti web che visitiamo e dei contenuti che consultiamo costituisce un’informazione preziosa. Non a caso, aziende grandi e piccole sfruttano questi dati a fini commerciali: tracciano le nostre attività online per sapere dove abitiamo, cosa ci piace, cosa cerchiamo, chi conosciamo, ma anche qual è il nostro stato di salute e dove ci piacerebbe andare in vacanza. Tutte queste informazioni possono essere facilmente dedotte aprendo la cache del computer, dov’è conservato una specie di diario di bordo delle nostre attività online.
É basata su questi dati la serie di opere Internet Cache Self Portrait dell’americano Evan Roth (1978) che da diversi anni archivia i contenuti del proprio computer – ma a volte anche quelli di altre persone – per realizzare installazioni in musei e gallerie. Una vasta massa multiforme di testi e immagini accumulata passivamente, come effetto collaterale della connessione, diventa così una contemporanea forma di ritratto, che racconta la personalità umana attraverso le tracce che lascia all’interno della macchina. “Ho iniziato la serie nel 2012”, ha dichiarato Roth, “nel momento in cui cominciavano a capire che le nostre interazioni online venivano tracciate e monetizzate. Imparammo che quei video di gattini contenevano cose meno innocue al loro interno”.
I DATI DI NAVIGAZIONE FORMANO UN AUTORITRATTO
Since You Were Born, aperta fino al 23 giugno al MOCA di Jacksonville, in Florida, è l’ultima materializzazione di questo progetto, la più vasta e monumentale finora. Invitato dalla direttrice del museo Caitlin Doherty a realizzare un’opera site specific per la serie di commissioni Project Atrium, l’artista americano ha tappezzato completamente l’ampio spazio dell’atrio del museo, dal pavimento fino al soffitto, con stampe dei suoi dati di navigazione degli ultimi quattro mesi, a partire dal giorno in cui è nata la sua seconda figlia, il 29 giugno del 2016 (a questo fa riferimento il titolo).
Per realizzare l’installazione è stato utilizzato un software che estende la vita della cache del computer, che altrimenti, per motivi di spazio, viene periodicamente svuotata, e poi tutti questi contenuti sono stati stampati, trasformando qualcosa di temporaneo in una presenza imponente e permanente. In questo caleidoscopio di immagini, tutto viene mescolato e gli accostamenti sono casuali: le facce dei propri amici prese dai social network sono accanto alle mappe di Google, vicino a banner pubblicitari, loghi di aziende, documenti burocratici e screenshot di film e video. Una materializzazione della memoria digitale che diventa anche una narrazione ipertrofica e integrale, senza censure; un’estrema trasparenza che però mostra e nasconde allo stesso tempo, confondendo gli occhi e la mente attraverso il sovraccarico estremo.
“Spero che le persone che guardano questa installazione siano spinte a riflettere sul proprio rapporto con le reti e con la connessione in generale, piuttosto che cercare di mettere insieme i pezzi per capire chi sono io, anche se è un altro modo, legittimo, di leggere l’opera. Credo però che sia più un ritratto della nostra cultura in questo momento storico, più che un lavoro che parla di me”, ha spiegato ai microfoni del magazine Wjct.
– Valentina Tanni
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